• 3 Luglio 2024 15:22

L’attenzione alle persone della buona medicina

DiElena Buccoliero

Feb 23, 2022

Sull’altro versante c’è il contrario di tutto questo. Il sorriso che dà fiducia, l’abbraccio che consola, l’ascolto delle domande che ti porti dentro, l’accoglienza dell’ansia e della paura che inevitabilmente attanaglia chi sa di camminare su un filo sottile e nella vita ha ancora voglia di starci. Perfino, durante la radioterapia, la radio accesa: puoi cantare una canzone e mezzo nel tempo dell’applicazione.

Sono alcuni dei contenuti emersi con il progetto “Quaderni S.A.I. – Sono ancora io”, promosso dalla Cooperativa Riabilitare e da Andos Ferrara (Associazione nazionale donne operate al seno), rivolto a un gruppo di donne operate per tumore al seno negli ultimi tre anni. Siamo solo al terzo incontro e ci sorprendiamo di come persone che si sono appena conosciute possano aprirsi in profondità raccontando fatti, pensieri e emozioni di un’esperienza tanto intima, come quella che ha a che fare con il rischio estremo e, mentre ti salva, ti segna. Al contempo sorprende come questi vissuti siano accolti reciprocamente con partecipazione e solidarietà nonostante la non conoscenza, riconoscendo le reciproche differenze senza giudicarle. Ma è questo che fa l’empatia, più ancora in un gruppo di persone che hanno vissuto un’esperienza per certi versi analoga: la tua paura per il prossimo controllo è un po’ anche la mia. Ad accomunarle ci sono nomi di medici o di ospedali che in più d’una hanno frequentato. A differenziarle c’è il fatto che, partendo da bisogni uguali, ogni donna cerca la propria risposta, a seconda della propria storia fino a quel momento e di ciò che la fa sentire al riparo. Probabilmente – mi dico – si fossero incontrate in un altro contesto, così diverse per età e percorso di vita, non si sarebbero trovate immediatamente interessanti. Qui invece la differenza è davvero un arricchimento. È un modo diverso di esprimere quel nocciolo comune di legame con la vita minacciato da una malattia che forse è passata, e forse è un’ombra che non passa mai.

È perché siamo tutte donne”, commenta una di noi in chiusura. “È una cosa delle donne questo riuscire a parlarsi con profondità e leggerezza anche nei momenti più duri”. Potrei aggiungere, consapevole della retorica: è un fatto delle donne questo modo di confrontarsi, testa e cuore contemporaneamente accesi e in dialogo tra loro. Non per una discriminante biologica, io credo, ma per una propensione coltivata dalla nascita a prestare attenzione alle proprie emozioni.

Per me, che non ho avuto l’esperienza della malattia, fare parte della mini equipe costituita da una fisioterapista insegnante di yoga, una psicoterapeuta e me che attingo alla medicina narrativa, “Quaderni SAI” è un’esperienza di continuo arricchimento. Questo terzo appuntamento dedicato al corpo che cambia e al percorso di cura è una continua conferma di quanto chi entra in sala operatoria abbia il bisogno e il diritto di essere trattato – dal primo ago aspirato fino ai controlli periodici – come una persona e non come un quarto di manzo da fare a fettine. Certo, nessuna componente del gruppo direbbe mai che l’umanità dell’operatore sanitario è l’unica cosa che conta a prescindere dall’accuratezza nella cura, ma di quell’accuratezza fanno parte gli scambi, gli sguardi, i toni di voce.

A me sembra di poter dire che sapere di avere a che fare con un essere umano tutto intero dovrebbe far parte delle competenze che descrivono il professionista sanitario, e non un dettaglio affidato al buon cuore del singolo individuo. Un po’ come, per chi lavora nella scuola, sapersi relazionare con un gruppo è essenziale quanto conoscere la propria materia, e i due aspetti sono ben correlati nel descrivere la competenza professionale di un insegnante.

Nello scambio di strategie e soluzioni ci rendiamo conto che il paziente, quando vuole la pazienza del medico, può provare a chiederla, senza paura di fare domande o di esprimere il proprio bisogno di comprensione e rassicurazione. Resta un margine di rischio di non essere capite. In ogni rapporto c’è. Ma se si chiede di occupare una posizione non solo passiva nel proprio percorso di cura, bisogna impegnarsi in prima persona per uscirne, poggiando su un’autostima che non sempre c’è per mille ragioni troppo lunghe a spiegarsi. Così si aggiunge un altro tassello: l’esperienza della malattia grave, come altri momenti molto duri cui non possiamo sfuggire, ci mettono a nudo di fronte a noi stessi e per questo sono anche occasione di apprendimento. Una scuola di cui si farebbe volentieri a meno, ma se questo è impossibile, vediamo di trarne ciò che possono darci.

 

Di Elena Buccoliero

Faccio parte del Movimento Nonviolento dalla fine degli anni Novanta e collaboro con la rivista Azione nonviolenta. La mia formazione sta tra la sociologia e la psicologia. Mi occupo da molti anni di bullismo scolastico, di violenza intrafamiliare e più in generale di diritti e tutela dei minori. Su questi temi svolgo attività di formazione, ricerca, divulgazione. Passione e professione sono strettamente intrecciate nell'ascoltare e raccontare storie. Sui temi che frequento maggiormente preparo racconti, fumetti o video didattici per i ragazzi, laboratori narrativi e letture teatrali per gli adulti. Ho prestato servizio come giudice onorario presso il Tribunale per i Minorenni di Bologna dal 2008 al 2019 e come direttrice della Fondazione emiliano-romagnola per le vittime dei reati dal 2014 al 2021. Svolgo una borsa di ricerca presso l’Università di Ferrara sulla storia del Movimento Nonviolento e collaboro come docente a contratto con l’Università di Parma, sulla violenza di genere e sulla gestione nonviolenta dei conflitti.

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