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Le emozioni dentro al cerchio. Parlare di violenza di genere nelle scuole superiori – I Parte

DiElena Buccoliero

Gen 27, 2015

Come è stato potenziato il rapporto con la scuola nell’ultimo anno?

Il primo passo è stato un confronto tra il nostro Centro Donna Giustizia (CDG) con le altre associazioni coinvolte nel progetto, Centro di ascolto per uomini maltrattanti (CAM) e Movimento Nonviolento. Diverse esperienze iniziavano a lavorare assieme, consapevoli della portata e della ricchezza derivata da questo incontro.

Il primo passo è stato proporre agli insegnanti una formazione che ha toccato i principali nodi del problema e in conclusione abbiamo raccolto le richieste di intervento nelle classi, che sono state moltissime. Abbiamo raggiunto in tutto quasi 500 studenti di 9 scuole superiori, sia con assemblee, sia con percorsi classe per classe articolati in diversi incontri, secondo le esigenze e le possibilità manifestate dalle scuole.

Che cosa vi hanno chiesto i professori?

Gli insegnanti hanno evidenziato la necessità di far conoscere ai ragazzi quello che si fa a favore delle donne che subiscono violenza e verso gli autori della violenza. In particolare sentivano l’importanza e la necessità di coinvolgere anche gli studenti maschi, che spesso restano un po’ assenti quando si parla di violenza di genere.

Come avete operato?

Tutti gli incontri sono stati condotti da due esperti, un’operatrice del CDG e uno del CAM, per dare una comunicazione a 360 gradi. Volevamo far capire che la violenza non è un problema solo delle donne o solo degli uomini, e nel contempo valorizzare una cultura di genere dove maschile e femminile dialogano assieme sentendosi entrambi interpellati su questo problema.

Gradualmente, entrando nelle scuole, ci siamo resi conto di quanto lavoro sia necessario, di quanta solitudine vivano i professori e di quanta violenza circoli nelle classi. È stato un intreccio emozionale che ha permesso di toccare con mano vissuti vari e diversi, legati prima di tutto all’età: l’adolescenza come periodo di indicativi cambiamenti, una fase di transizione che modella l’identità corporea e psicologica.

È stato facile avviare il dialogo con gli studenti?

Dipende dai casi. In genere, dopo le presentazioni iniziali chiediamo ai ragazzi di formare un cerchio, che viene immediatamente riempito da emozioni fluttuanti. L’ascolto è a volte profondo, a volte fluttua verso altri interessi; da subito si vedono corpi che si pietrificano o cominciano a saltellare nervosamente sul posto. Risatine, commenti con il vicino di banco, sms con il cellulare… tracce delle conseguenze che l’argomento “violenza” produce.

Imbarazzo, insomma. In che modo avete introdotto il tema della violenza?

Siamo partiti dagli stereotipi comprendendoli attraverso la relazione del femminile con il maschile, dapprima all’interno del gruppo classe. Questo ha permesso la creazione di uno spazio in cui emozioni, atteggiamenti, convinzioni, desideri, sentimenti e aspettative, sono emersi nella testimonianza della vita quotidiana delle ragazze e dei ragazzi. Il discorso non si ferma alla scuola: il rapporto tra mondo maschile e femminile è anche il mio rapporto di figlio/a con mia madre o con mio padre, di me fratello, con mia sorella, di me amica con te amico…

Gli stereotipi sono ancora decisivi nell’identità di genere dei ragazzi e delle ragazze?

Nella vita di ogni giorno ci rendiamo conto che non c’è aspetto della nostra esperienza che non sia connotato secondo il genere. A partire dai giochi ritenuti più idonei per i bambini e quelli per le bambine, fino ai ruoli familiari o nel lavoro.

Abbiamo cercato di individuare con la classe questi stereotipi. In ogni occasione si delineavano due contenitori distanti: la donna deve essere giovane bella e magra, l’uomo forte e muscoloso; la donna fine ed elegante, l’uomo coraggioso, freddo e duro; la donna tranquilla sensibile e non volgare, l’uomo deve lavorare ed essere pratico; la donna rispettosa, madre e che si prende cura, l’uomo intelligente e protettivo, ecc..

Abbiamo esplorato con i ragazzi come l’irrigidimento di queste due categorie può portare ad una profonda distanza tra i sessi, con la conseguenza che già prima di conoscere l’altro lo posizioniamo in una determinata categoria. Mostrare queste correlazioni ha permesso di capire le radici della violenza.

Gli stereotipi stanno resistendo alle generazioni?

Beh, resta il fatto che se una ragazza va con tanti ragazzi è una troia, il ragazzo nella condizione opposta è un figo. Sono emerse le diverse forme di violenza maschile e femminile: la donna che picchia dà fastidio e fa arrabbiare, l’uomo che dà uno schiaffo fa paura. Oppure, nella coppia, la ragazza dice: non voglio che tu vada in discoteca perché temo ci siano altre donne che possono avvicinarsi e provarci con te e tu smetta di pensarmi, so però che è una mia insicurezza perché ho paura che trovi una migliore di me. Nei maschi: non voglio che tu vada in discoteca senza di me perché ho paura degli altri maschi, perché li conosco; ho paura degli altri maschi perché sono come me e quindi infedeli, non ho fiducia nella mia categoria.

Che relazione c’è tra stereotipi di genere e violenza?

La rigidità dei ruoli tra i generi alimenta i comportamenti violenti, che servono per mantenere il potere di un genere sull’altro, lasciando poco spazio ad una cultura del rispetto, della pace e dell’ascolto, ma, piuttosto, del dominio e del controllo.

La violenza contro le donne è una violenza di genere riconosciuta oggi dalla comunità internazionale come una violazione fondamentale dei diritti umani. Le Nazioni Unite la definiscono “ogni atto basato sul genere che comporti, o somigli, a un danno o una sofferenza fisica, sessuale o psicologica inflitta ad una donna, incluse minacce di tali atti, coercizioni o privazioni arbitrarie do libertà, che avvengano sia nella vita pubblica che privata”.

In questo senso ritieni che il genere sia importante nella comprensione della violenza.

Sì, perché la differenza tra maschio e femmina è importante ancor prima della nascita: già quando un bambino è nella pancia della mamma ci si chiede se sarà maschio o femmina e il genere sessuale è la prima cosa che memorizziamo e che non dimentichiamo di una persona, mentre possiamo benissimo non ricordare il suo nome o se biondo oppure moro. I bambini e le bambine percepiscono da subito la differenza tra il padre e la madre, tra chi è come quello che diventerà o l’altro/a che non sarà e apprendono i ruoli culturali definiti socialmente come l’aria che respirano. Se tale relazione è vissuta in un clima armonico e tollerante si pongono le basi per la costruzione di un’identità forte e sana che saprà gestire i conflitti che possono nascere dalle differenze. Quando invece esistono rigide divisione dei ruoli in cui non si accettano atteggiamenti flessibili l’apprendimento sarà il risultato di questa rigidità.

Qualcosa di simile accade nella violenza verso i bambini. Quanti ragazzi e ragazze hanno giustificato la sberla ricevuta dal genitore, lo scappellotto, la sculacciata come una forma di educazione? Quanti genitori sono convinti che una sberla serva per far capire? Se la sberla di un estraneo ti ferisce, perché è considerata un atto d’amore quando proviene dalle persone che ti accudiscono?

Allora tutto si gioca nell’infanzia?

Sebbene il modello dei nostri rapporti ci venga spesso fornito dai nostri genitori, noi tutti abbiamo la possibilità di determinare il nostro futuro. Nel corso dell’adolescenza e dei primi anni dell’età adulta, creiamo spesso dei modelli di comportamento che durano per tutta la vita.

Temi come rispetto e onore diventano fonte di discussione dove i ragazzi ma anche le ragazze si giocano la propria identità, dove atti di violenza trovano giustificazione in nome dell’orgoglio ferito, dove la vergogna di subire violenza allontana i ragazzi e le ragazze tra di loro. Intanto alcuni si fanno forti delle azioni violente che hanno compiuto per difendere la proprio posizione, messa in pericolo non tanto da un altro violento, ma dall’esposizione agli occhi degli altri o delle altre, del gruppo che giudica e che si fa forte degli stereotipi sociali trasmessi dagli adulti stessi.

(immagine tratta da www.rete8.it)

Di Elena Buccoliero

Faccio parte del Movimento Nonviolento dalla fine degli anni Novanta e collaboro con la rivista Azione nonviolenta. La mia formazione sta tra la sociologia e la psicologia. Mi occupo da molti anni di bullismo scolastico, di violenza intrafamiliare e più in generale di diritti e tutela dei minori. Su questi temi svolgo attività di formazione, ricerca, divulgazione. Passione e professione sono strettamente intrecciate nell'ascoltare e raccontare storie. Sui temi che frequento maggiormente preparo racconti, fumetti o video didattici per i ragazzi, laboratori narrativi e letture teatrali per gli adulti. Ho prestato servizio come giudice onorario presso il Tribunale per i Minorenni di Bologna dal 2008 al 2019 e come direttrice della Fondazione emiliano-romagnola per le vittime dei reati dal 2014 al 2021. Svolgo una borsa di ricerca presso l’Università di Ferrara sulla storia del Movimento Nonviolento e collaboro come docente a contratto con l’Università di Parma, sulla violenza di genere e sulla gestione nonviolenta dei conflitti.

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