Ci sono adolescenti che si salutano “Ciao bro”, dove “bro” sta per “brother”, fratello. Ci sono culture (anche in Italia, in ambienti rurali ad esempio) in cui titoli di parentela come nonna o zia, fratello o cugino si applicano senza eccessivo riguardo ai legami di sangue. Nel mio piccolo, grossomodo tra i venti e i quarant’anni sono stata in un gruppo di amiche strette nel quale abbiamo vissuto ognuna anche la vita delle altre. Eravamo in cinque e ci sentivamo “famiglia”. Io che per aspetto e temperamento ero o sembravo la più pacioccona ero la mamma, un’altra brillante e determinata il papà, le più giocherellone o tormentate erano le nostre bambine. Ero io la più giovane all’anagrafe e quante volte abbiamo riso, allora, che nella nostra famiglia la mamma fosse nata dopo aver messo al mondo tre figlie! I lavori, le scelte, gli amori ci hanno sparpagliate senza intaccare l’affetto e nei momenti topici, belli e brutti, o in altre occasioni che inventiamo, non ci manchiamo le une alle altre.
Sulla sorellanza femminile ho scritto anni fa un articolo che condivido ancora ma il discorso qui è un po’ più ampio e non c’è ragione per limitarlo al femminile. Ho un amico che chiamo affettuosamente fratellino. È monaco, per lui la comunità è fatta di confratelli (preciso che io sono la sua sorellina da molto prima) e ognuno di loro è padre spirituale per un discreto numero di persone, a riprova di quanto il linguaggio sia predisposto per la fisarmonica familiare. Per altro verso, credo di avere alcune decine di cugini di terzo o quarto grado con i quali condivido pezzi di DNA ma di cui non conosco il nome e la faccia, né i nomi e i volti dei loro genitori.
A voler capire cosa sia oggi famiglia, o compiamo una scelta ideologica – non è la mia – o prendiamo atto di una realtà variegata e proviamo a capirla. Ci penso mentre leggo della morte di Michela Murgia, una scrittrice che non conosco a fondo ma della cui intelligenza non credo si possa dubitare. Il 2 giugno scorso ho molto apprezzato il suo intervento sulla Festa della Repubblica, ma ora ho per le mani interviste e articoli sulla famiglia queer che non c’entra niente con l’omosessualità ma è – copio da una bella intervista – una famiglia fondata «sullo Ius Voluntatis, sul diritto della volontà. Perché la volontà deve contare meno del sangue? Perché, se due o tre amiche anziane rimaste sole o vedove, coi figli già andati a vivere altrove, vogliono andare a vivere insieme, condividere le spese, la casa, avere la reversibilità pensionistica, decidere l’una per l’altra se una non può più decidere. Perché non possono farlo dentro una scatola legale, un patto sociale? (…) Cosa vuol dire che c’è una famiglia migliore e una peggiore?».
La questione è attuale e dibattuta mentre ci confrontiamo con visioni che tendono ad esaltare la famiglia tradizionale, ossia quella nucleare, eterosessuale e con figli, fondata sul matrimonio. Sappiamo che la realtà è molto variegata; in modo opportuno Murgia nella stessa intervista afferma: «Non voglio chiamare la mia famiglia non convenzionale, perché sono sicura che nella realtà queste famiglie siano già diffusissime».
Lo condivido. Nella mia città, ad esempio, i bambini che nascono da genitori uniti in matrimonio non sono la maggioranza dei neonati, almeno tra gli italiani, e credo che questa e altre variazioni non siano un problema; lo diventano nella misura in cui le strutture sociali non sono nate dalla molteplicità e non sanno come trattarla. I mutamenti sociali richiedono tempo, l’attesa è ragionevole purché non si inventino o non si fomentino tensioni sociali non necessarie.
Alexander Langer alla Cittadella di Assisi, nella relazione che possiamo considerare introduttiva al suo “Tentativo di decalogo per una convivenza interetnica”, ci dà un primo insegnamento: non c’è ragione per cui l’estensione di uno spazio identitario debba mettere in pericolo chi già lo abita. Dice precisamente Langer: «ogni luogo della terra, ogni nostro luogo a noi familiare, non diventa meno familiare, non diventa meno amico a noi se oltre a noi c’è anche qualcun altro». Parafrasando potrei dire: la famiglia, i diritti che ne derivano, non diventano meno contenitivi, meno rassicuranti per chi è in un nucleo composto in modo “tradizionale”, se si dà il nome di famiglia anche a relazioni di affetto e di aiuto basate su presupposti differenti. Nessuna volontà di diminuire il valore di quella scelta. Nessuna minaccia o sottrazione per chi è già famiglia.
Si opporrà che ragionando in questo modo si perdono i confini e si finisce per dire che tutto è famiglia ovvero niente lo è, il concetto stesso diventa qualcosa di volatile, un’inconsistenza dettata dall’umore del momento. A questi dubbi Michela Murgia oppone la sua esperienza ventennale. Identifica la famiglia queer con rapporti di solidarietà, sostegno economico, cura e affetto reciproci. Rapporti dove i conflitti ci sono e vengono affrontati, e qualche volta non si risolvono ma si va oltre perché restare uniti è più importante che avere ragione.
«Le persone hanno esigenze che gestiscono inventandosi rapporti che possano soddisfarle», afferma, e io lo sottoscrivo per averlo vissuto e visto tante e tante volte. Poter contare su più figure genitoriali – sebbene non più di due per legame di sangue – è un arricchimento che chiunque di noi può avere sperimentato, e per i meno fortunati è una compensazione – attivamente ricercata anche se a volte in modo inconscio – che colma eventuali mancanze o alleggerisce possibili oppressioni. In ogni caso, potersi rapportare a modelli diversi permette di fare confronti e di guardare se stessi e il mondo con maggiore libertà. Lo sa chiunque sia cresciuto potendo contare su degli zii importanti, o abbia avuto insegnanti, vicini di casa, educatori o allenatori che hanno rappresentato un riferimento. Pensare a quegli adulti come parte della famiglia, figure stabili presenti nel tempo, è un passo in più, una possibilità non comune forse anche perché richiede che i genitori siano disposti a fare spazio, il che è piuttosto raro specie se dall’altra parte non ci sono nonni o zii – il legame di sangue, di nuovo – ma persone cui si è legati per affinità e per scelta.
Qualche volta accade, come a Michela Murgia con i suoi quattro “figli dell’anima” che ha contribuito a crescere insieme ai loro genitori perché quei bambini, quei ragazzi l’hanno scelta, lei si è lasciata scegliere e evidentemente i padri e le madri naturali lo hanno condiviso.
Ma poi, davvero usiamo concetti che sembrano dirompenti, complice l’uso dell’inglese, e sono invece ben radicati nella società italiana. Mentre scrivo queste righe ripenso alle tante volte che ho ascoltato Daniele Lugli parlare di Aldo Capitini e dei suoi due ragazzi, gli amici fraterni Riccardo Tenerini e Primo Ciabatti divenuti entrambi partigiani (uno disarmato, l’altro morto in guerra e medaglia d’oro della Resistenza), che Capitini ha cresciuto e fatto studiare tenendoli con sé. Figli dell’anima, si direbbe, anche per lui.