• 23 Dicembre 2024 21:49

Le manifestazioni vietate non sono a rischio zero

DiDaniele Lugli

Set 25, 2023

Nell’autunno del 1963 un Gruppo di Azione Nonviolenta (GAN), coordinato da Pietro Pinna e composto da 5 giovani di diverse città, ha aperto il dibattito sull’obiezione di coscienza, che in Italia era ancora vietata, organizzando manifestazioni su e giù per lo stivale.

La richiesta di quei cinque giovani era una legge che riconoscesse il diritto di non imbracciare le armi per motivi di coscienza e offrisse un’alternativa. Si arrivò così all’istituzione del servizio civile sostitutivo, che oggi è sospeso insieme alla leva ed è sostituito dal Servizio civile universale.

Occorsero notevoli sforzi e molti anni di lotte nonviolente per affermare la pari dignità tra difesa civile e difesa militare della patria. Prima del dicembre 1972, solo pronunciare la parola “obiezione di coscienza” costituiva apologia di reato. Daniele Lugli, che del GAN faceva parte, qui racconta cosa avvenne a Milano, il giorno di Sant’Ambrogio del 1964, quando decisero di tenere la manifestazione nonostante il divieto della questura.

L’intervista è stata raccolta da Elena Buccoliero nel febbraio 2020.

Se le manifestazioni, negli anni Sessanta, venivano regolarmente vietate perché non si poteva parlare di obiezione di coscienza, voi cosa potevate fare?

Per un po’ abbiamo deciso di rispettare i divieti. Andavamo in piazza con i nostri volantini, reclamavamo per l’imposizione, e ci fermavamo lì. Questa è stata la prima fase.

Quando abbiamo preparato la manifestazione che tenemmo a Milano nel dicembre del ’64, in verità avevamo deciso che era il caso di farci processare. Eravamo in tre di Ferrara e uno di Milano, per il processo bastavamo noi. La nostra idea era: vogliamo un processo fatto bene, nel quale vinciamo, chiediamo che ci paghino le spese legali, che ci diano indietro i cartelli e chiediamo anche un indennizzo, perché ci han fatto perdere del tempo.

Non volevamo prenderci anche l’imputazione di resistenza a pubblico ufficiale, quindi quando ci hanno fermati abbiamo detto: “Ah beh, se c’è qualcosa da chiarire, in questura ci veniamo”. Abbiam seguito, senza opporre neanche resistenza passiva. Però la cosa fu molto veloce. Noi siamo arrivati, con i nostri cartelli, e c’erano già i questurini che ci hanno immediatamente preso i documenti e accompagnati in questura.

Come andò l’interrogatorio?

Lunghe deposizioni… Mi colpì perché, guardando nei loro incartamenti, si capiva che c’era qualcosa di strano. “Il Gan, il Gan…”. Doveva esserci quest’idea qui, che c’era un Gan diffuso ovunque, non si erano accorti che eravamo sempre gli stessi! “Il Gan, è arrivato il Gan…”.

E in piazza cosa è successo?

È successo che, secondo Pinna, insomma era stato un pochino troppo svelto quel sequestro di persone, e che volantinare solamente era inefficace. Quindi ha deciso, in accordo con il resto del gruppo, di riprendere la manifestazione. Hanno preso i cartelli che avevamo in più, si sono messi, altri cinque o sei, al nostro posto e sono stati portati via. Bellettato in particolare venne trascinato malamente.

Nessuno reagì?

No. Cioè sì, la gente. Era il giorno di Sant’Ambrogio, c’era molta gente in piazza. Reagì, ma nei confronti della polizia, “Cosa fate?”, questo sì. Così mi è stato detto, perché io ero in questura quando son stati fermati gli altri. Quando son tornato, erano in questura loro. Però, questo sì, si vede anche dalle fotografie. Le espressioni delle persone…

Hanno visto dei giovani lì seduti, con i cartelli per l’obiezione di coscienza, e una distribuzione di volantini molto semplici in cui in modo corretto e succinto era esposta la richiesta. Il fatto che la polizia li trascinasse via a quel modo era poco comprensibile. Anche perché eravamo abbastanza attenti a evitare di cadere nelle provocazioni. Allora i titoli di giornali erano: portati via all’inglese. Era una cosa che avevamo visto fare in Inghilterra, nelle manifestazioni di Bertrand Russell. Si parlava di resistenza passiva, più che di nonviolenza.

Il fatto di manifestare nonostante i divieti era una scelta serena per tutti o qualcuno era spaventato? In fondo non è così immediato dire: la manifestazione è stata vietata e noi la facciamo lo stesso.

C’è ancora il mio amico Carlo che dice: «Mah, io ricordo benissimo quei tempi, c’era Piero Pinna che voleva farmi andare in galera e io non volevo andarci». Pinna diceva: «Ma non succede niente, ti fanno un processino…». «Sì, dopo c’è la galerina però».

No, ci pensavamo eccome. Io, lavoravo, ero sposato, e sentivo una qualche responsabilità rispetto agli impegni che mi ero assunto. Se andavo a una manifestazione avevo bisogno di sapere che alla sera rientravo per cui, certo, guardavamo le cose. Il rischio era il disagio di doverti confrontare con la polizia, di un eventuale processo. Lo mettevamo in conto.

Io non avevo nessuna pendenza penale, allora dicevo: «È bene che le domande le faccia io piuttosto che Pinna, che ha già dei precedenti per l’obiezione di coscienza del ’48. Se c’è da prendersi un minimo di responsabilità è meglio che lo faccia io; ci penserò un’altra volta, se per caso venissi condannato».

Tu non avevi paura?

Devo dire che ero abbastanza disinvolto. Un po’ perché, lavorando in uno studio di avvocato per diventare procuratore, studiavo la materia e quindi anche i comportamenti da tenere per evitare di essere incriminati. Però per esempio, anche Carlo si prese il suo processo e lo affrontò serenamente.

Tra di noi c’erano anche ragazzi che si apprestavano a fare obiezione di coscienza, con relativi processi al tribunale militare e tutto il resto. Quindi affrontare il problema di una condanna per una manifestazione del GAN, visto quello che probabilmente li attendeva, non era la cosa più grave.

Andò tutto bene?

Mi pare che il GAN abbia avuto quattro processi. Siamo stati sempre assolti, di questo sono sicuro. Poteva andare diversamente. Se si pensa, che qualche anno dopo, Pinna sarà incarcerato per il testo di un manifesto sul 4 novembre… Un testo, oggi, assolutamente difendibile. Quello che facevamo, quando andavamo in piazza per l’obiezione di coscienza, non era a rischio zero, ecco. Questo no.

 

Di Daniele Lugli

Daniele Lugli (Suzzara, 1941, Lido di Spina 2023), amico e collaboratore di Aldo Capitini, dal 1962 lo affianca nella costituzione del Movimento Nonviolento di cui sarà nella segreteria dal 1997 per divenirne presidente, con l’adozione del nuovo Statuto, come Associazione di promozione sociale, e con Pietro Pinna è nel Gruppo di Azione Nonviolenta per la prima legge sull’obiezione di coscienza. La passione per la politica lo ha guidato in molteplici esperienze: funzionario pubblico, Assessore alla Pubblica Istruzione a Codigoro e a Ferrara, docente di Sociologia dell’Educazione all’Università, sindacalista, insegnante e consulente su materie giuridiche, sociali, sanitarie, ambientali - argomenti sui quali è intervenuto in diverse pubblicazioni - e molto altro ancora fino all’incarico più recente, come Difensore civico della Regione Emilia-Romagna dal 2008 al 2013. È attivo da sempre nel Terzo settore per promuovere una società civile degna dell’aggettivo ed è e un riferimento per le persone e i gruppi che si occupano di pace e nonviolenza, diritti umani, integrazione sociale e culturale, difesa dell’ambiente. Nel 2017 pubblica con CSA Editore il suo studio su Silvano Balboni, giovane antifascista e nonviolento di Ferrara, collaboratore fidato di Aldo Capitini, scomparso prematuramente a 26 anni nel 1948