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Le migrazioni e i diritti calpestati

DiRedazione

Feb 27, 2019

di Andrea Mulas

Nota a Luca Barbari, Francesco De Vanna (a cura di), Il “diritto al viaggio”. Abbecedario delle migrazioni, postfazione di Gualtiero Bassetti, Giappichelli, Torino, 2018, pp. 347

Già padre Ernesto Balducci, alla fine degli anni Ottanta, aveva anticipato che il destino dell’Europa sarebbe stato la scoperta dell’Altro, perché “la dannazione dell’Europa, specie di quella nella sua fase ultima, colonialista ed imperialistica, è di non avere mai incontrato l’altro, di avere comunque esportato il proprio modello, di averlo imposto fino allo sterminio di chi resisteva. La nostra storia è questa: o l’assimilazione del diverso attraverso le vie dell’integrazione progressiva, o il suo sterminio” (Dobbiamo vivere insieme. Scritti sull’Islam e sull’immigrazione, Mauro Pagliai Editore, Livorno 2016, pp. 46-47).

La realtà che emerge dalle diverse voci che compongono il volume Il “diritto al viaggio”. Abbecedario delle migrazioni, scaturito dal Festival della Migrazione e pubblicato nella collana del CRID – Centro di Ricerca Interdipartimentale su Discriminazioni e vulnerabilità dell’Università di Modena e Reggio Emilia, diretta da Thomas Casadei e Gianfrancesco Zanetti, è assai diversa. Lo denuncia con vigore nel suo contributo don Luigi Ciotti: “22.000 morti nel Mediterraneo secondo i dati ONU negli ultimi diciotto anni, ma si ritiene che per ogni corpo ritrovato ce ne siano almeno due dispersi” (“Mafie”, p. 153).

Eppure questa Europa, divenuta all’indomani della seconda guerra mondiale (“potenza civile” secondo la definizione del politologo Mario Telò: L’Europa potenza civile, Laterza, Bari, 2004), continua, come spiega Emilio Santoro nella sua voci, a marcare confini esterni ed interni (di tipo sociale ed amministrativo), a delineare frontiere per respingere le nuove “invasioni barbariche” (“Confini”: cfr. pp. 33-34) o addirittura ad innalzare muri (la voce in questo caso è stata affidata a Enrica Rigo).

La rimodulazione dei confini, fa notare Fabio Macioce, è strumentale alle politiche nazionali di auto-legittimazione dei respingimenti in mare, in violazione dell’art. 19 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e del Trattato di Lisbona (“Mare”, p. 171).

La firma dell’Accordo Italia-Libia è stato il primo passo con il quale l’Italia ha messo in atto una strategia volta ad aggirare i vincoli del diritto internazionale in tema di salvaguardia della vita in mare. Il report diffuso l’8 febbraio da Oxfam Italia parla chiaro: 5.300 morti in due anni, di cui 4.000 solo nella rotta del Mediterraneo centrale e 143 morti su 500 arrivi solo nel 2019. Senza dimenticare le migliaia di persone detenute nelle carceri libiche, donne e bambini in fuga da guerra e fame, e i 15 mila migranti riportati indietro dalla Guardia costiera libica, alimentando così il traffico di esseri umani (https://www.osservatoriodiritti.it/2019/02/08/accordo-italia-libia-migranti).

Troppo spesso si dimentica, ci ricorda invece Maria Elisabetta Vandelli che i “migranti che arrivano sul nostro territorio provengono da zone del pianeta che noi abbiamo contribuito a rendere non vivibili a causa di guerre, carestie, malattie alimentate dall’industria occidentale e quasi ci sorprendiamo se queste persone anelino ad accedere a diritti che possano migliorare le loro condizioni di vita (come il diritto al lavoro e a non essere sfruttati (“Diritti [accesso ai]”, in part. pp. 59-60).

È storia nota, ma volutamente nascosta sotto libri impolverati, ovvero “un fantasma rimosso dalla coscienza e dalla memoria contemporanea d’Europa” (V. Russo, “Colonialismo”, p. 23) eppure la “missione civilizzatrice” o il “fardello dell’uomo bianco” erano concetti ancora in uso nel secolo scorso.

Il capitano Junieux, ufficiale della Force Publique si rivolgeva in questi termini sprezzanti al console Roger Casement, andato in Congo per indagare sugli orrori del colonialismo: “Perché siamo venuti, allora? Lo so già: a portare la civiltà, il cristianesimo e il libero commercio” (M. Vargas Llosa, Il sogno del celta, Einaudi, Torino 2011, p. 88).

Le conseguenze dei metodi da Cuore di tenebra sono visibili a più di cento anni di distanza. D’altronde, sottolinea Vincenzo Russo, “non era difficile prevedere che “il ritorno alle caravelle” (per usare l’evocativa immagine di padre Ernesto Balducci) avrebbe significato per il nostro continente una resa dei conti con gli Altri che eravamo, nel frattempo e per sempre, diventati” (V. Russo, “Colonialismo”, p. 23).

Ci troviamo di fronte alla rinascita e all’affermazione non solo dell’eurocentrismo, ma anche di nuove forme di etnocentrismo e di razzismo (anche istituzionale: cfr. la voce di Gianfrancesco Zanetti, “Razza/razzismo”: pp. 247-256) che prendono fisionomia nella percezione dell’altro, inteso come corpo estraneo sul quale riversare rancore e aggressività (cfr. V. Sorrentino, “Straniero”) creando così dei filtri che impediscono il processo d’integrazione e minano, alla base, la costruzione di una democrazia inclusiva e interculturale fondata sulla promozione e protezione dei diritti umani e diritti dei popoli (si soffermano su questi aspetti Germain Nzinga Makitu nella sua voce “Italia/Africa”, pp. 133-138, e Bruno Ciancio che dedica il suo contributo alla nozione di “Intercultura”).

L’alternativa all’insicurezza, ai confini, ai muri, consiste proprio nel gettare le basi per costruire una società futura quale “comunità planetaria” (per dirla ancora con padre Balducci) contro l’“universalismo asimmetrico” dei diritti cui fa riferimento Luca Baccelli (“Umanità”, in part. p. 311) e che affonda le sue radici nelle bolle papali di Alessandro VI emanate all’indomani della scoperta delle Indias Occidentales.

La costruzione negativa dell’altro rafforza l’identità nazionalista ed europea all’interno di una cornice caratterizzata dalla strumentale “invenzione dell’emergenza migranti” (cfr. S. Ramilli, “Identità”, p. 111) che produce come effetto immediato l’innalzamento del grado di percezione di insicurezza sociale ed economica (come spiega bene Fabrizio Battistelli: “Sicurezza”: pp. 265-272), soprattutto a causa del ruolo esercitato dalla dis-informazione e dai media, dalla carta stampata e dall’informazione televisiva, da un cattivo uso del linguaggio (aspetti sui quali si soffermano Andrea Cavallini e Raffaele Iaria nella voce “Informazione”, nonché Bruno Mastroianni e Vera Gheno nella voce “Parole”).

La realtà dei fatti è un’altra e l’Abbecedario contribuisce a far cadere diversi falsi miti.

In primo luogo, l’immigrazione in Italia e nel Vecchio Continente è prevalentemente europea. E tanti, come spiega con dovizia di particolari Delfina Licata, sono gli italiani che emigrano in varie parti del mondo (pp. 139-146).

Inoltre, come ha rilevato recentemente il sociologo Maurizio Ambrosini “il rapporto tra povertà e migrazioni è un rapporto negativo: più si è poveri, meno si emigra, quanto meno a livello internazionale. Risorse poi significa risorse economiche, ma anche culturali e sociali: un’apertura di mente, delle conoscenze e delle aspirazioni che derivano soprattutto dall’istruzione; delle relazioni con chi è già riuscito a insediarsi e può fungere da un punto di appoggio, come ai tempi della grande emigrazione italiana. Gli africani a basso reddito raramente ne dispongono. I migranti internazionali nel mondo, come nel caso italiano, provengono prevalentemente da Paesi intermedi, e non dai Paesi più poveri in assoluto. Oggi inoltre a livello globale i maggiori Paesi di emigrazione sono anche Paesi che si stanno sviluppando: India (16,6 milioni di emigranti); Messico (13 milioni); Federazione Russa (10,6 milioni); Cina (10 milioni). La selettività delle politiche migratorie contemporanee, ossia gli ostacoli che i nostri Paesi frappongono agli arrivi, alza l’asticella e rende più arduo l’arrivo dei più poveri” (M. Ambrosini, Lo sviluppo spinge a partire. La mobilità umana oltre i luoghi comuni, in Avvenire, 6 febbraio 2019).

Grazie a questa pubblicazione è dunque possibile mettere a confronto e analizzare termini e concetti a prima vista contrastanti (muri/ponti, tortura/umanità, tratta/viaggio, discriminazioni/diritti, colonialismo/ONG, confini/Europa e così via) ma che in realtà vanno letti come fenomeni strettamente interconnessi.

Non si tratta solo di un mero “dizionario” dell’universo che ruota attorno al fenomeno delle migrazioni, ma di un lavoro ampio e articolato che offre al lettore diversi punti di vista che permettono di “mettere a fuoco” il quadro migratorio nella sua totalità, approfondendo tematiche centrali – si pensi per esempio a quella delle “radici”, delle “famiglie” e delle “seconde generazioni” (sulle quali si soffermano, rispettivamente, Daniele Cantini: pp. 239-246, Paolo Seghedoni e Maria Rita Pozzi: pp. 97-102, Barbara G. Bello: pp. 257-264) o al ruolo dello Stato (al centro della trattazione di Donatella Loprieno: pp. 273-278) o, ancora, alle politiche di de-radicalizzazione (su cui porta l’attenzione Ignazio de Francesco: pp. 53-58) – e facendo contestualmente cadere diffusi luoghi comuni (significativi a questo riguardo sono, per esempio, il contributo di Tindara Addabbo “Costi”, quello di Francesco Lauria “Lavoro” e, ancora, quello di Teresa Marzocchi “Povertà”).

Le fragili e strumentali argomentazioni giuridico-politico-sociali addotte nei tempi che attraversiamo per additare le migrazioni quali cause dei mali delle società contemporanee si ritrovano spogliate di qualsiasi fondamento dalle ricerche dell’Abbecedario, che invece denuncia le ripetute violazioni del diritto internazionale, della Carta dei diritti dell’Unione Europea, della Carta costituzionale, dei diritti umani, oltre alle nuove forme di tratta e di schiavitù. Come ha sottolineato Thomas Casadei, con riguardo a queste tematiche, “nei paesi di arrivo, grave sfruttamento e schiavitù, rappresentano – strutturalmente – l’altra faccia delle migrazioni rispetto alle diverse retoriche della “sicurezza”, dell’“integrazione”, dell’“utilità economica” (“Tratta/schiavitù”, p. 299).

Luca Baccelli parla di “emorragia di umanità” a cui più volte ha richiamato l’attenzione dei governanti anche Papa Francesco riferendosi, nella sua professione di fede (cfr. la voce scritta da don Erio Castellucci: pp. 103-110, ma anche quella di Vincenzo Pacillo sul ministero ecclesiastico: pp. 159-166), in particolare proprio alle forme di schiavitù contemporanea: “una ferita aperta nel corpo della società, una piaga nella carne di Cristo e un crimine contro l’umanità”; la “tratta di persone è una terribile violazione della dignità umana. Apriamo gli occhi su questa piaga vergognosa e impegniamoci a combatterla” (Saluto alla Galileo Foundation, ricevuta in udienza venerdì 8 febbraio 2019, nella Sala del Concistoro).

L’Europa, invece, chiude gli occhi, e illudendosi che sia la soluzione, tollera la disumanità delle condizioni di vita – che Marina Lalatta affronta anche con riferimento alla tortura (pp. 291-298) – nelle isole greche di Samos, Kos, Lebos e Kios in cui sono stipate 20 mila persone come conseguenza dell’accordo sottoscritto tra Ue e Turchia nel 2016. Uomini, donne e addirittura bambini (sui quali si sofferma Lucia Re nel suo contributo) ai quali è proibito lasciare gli hotspot per anni. La chiusura dei confini ha reso le isole prigioni di fatto; ma simili politiche di esclusione non sono in grado di limitare il fenomeno migratorio, ma solo di clandestinizzarlo e drammatizzarlo. La via da seguire dovrebbe invece essere tutt’altra: prima di tutti quella del salvare vite come fanno le ONG (si veda in proposito la voce curata da Francesco De Vanna: pp. 185-190), di dare asilo (secondo un’antica tradizione ricostruita da Alessandra Sciurba: pp. 1-8) e protezione umanitaria ai rifugiati (la cui dottrina è sintetizzata da Stefania Ascari: pp. 221-230), di praticare accoglienza e ospitalità (come suggeriscono nei loro contributi, rispettivamente, Mons. Giancarlo Perego: pp. 221-230 e Alberto Caldana: pp. 191-199), di riconoscere la vulnerabilità (concetto trattato da Baldassare Pastore: pp. 323-328).

In realtà la questione del movimento dei popoli – che richiama l’immagine dell’Esodo (descritta con suggestivi toni letterati da Roberta Biagiarelli: pp. 83-88) – “è già con noi”, è “strutturale” (Bruno Ciancio “Intercultura”, p. 127), tanto che nel 2017 il “numero di persone costrette a fuggire nel mondo a causa di guerre, violenze e persecuzioni ha raggiunto un nuovo record per il quinto anno consecutivo” (lo precisa Teresa Marzocchi: “Povertà”, p. 214).

Come ha rilevato anche Luigi Ferrajoli, la “violazione più drammatica del principio di uguaglianza […], è oggi, indubbiamente, il trattamento cui le nostre democrazie sottopongono i migranti. […] costoro incontrano, nei nostri paesi, le discriminazioni delle loro differenze personali legate al loro status di stranieri” (L. Ferrajoli, Manifesto per l’uguaglianza, Laterza, Bari-Roma 2018, p. 196; alle diverse pratiche discriminatorie, specie con riferimento alle donne migranti sono dedicati i contributi di Serena Vantin, “Discriminazioni”: pp. 65-68, Carla Faralli, “Donne”: pp. 69-74, e quello di Orsetta Giolo, “Corpi”: pp. 37-44).

L’Europa – su cui scrive Cécile Kyenge (pp. 89-96) – si trova quindi di fronte ad una grande sfida e sopravvivrà solo se sarà capace di costruire ponti tra culture invece di muri tra persone (seguendo la prospettiva di Giuseppe Moscati: “Ponti”, pp. 207-212), a partire dalle sue città (come suggerisce Andrea Bosi: pp. 17-22), dalle energie vitali delle istituzioni ma anche del terzo settore (su cui interviene Edoardo Patriarca: pp. 285-290), da un’economia civile (secondo le indicazioni di Leonardo Becchetti e Giovanni Antonio Forte) e soprattutto dal riconoscimento che il viaggio è un diritto di tutti e tutte, a prescindere dal contesto d’ origine (cfr. G. Covri, “Viaggio”, pp. 317-322).

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