Ripercorriamo la storia del Gruppo di Azione Nonviolenta nato nel 1963 in senso al Movimento Nonviolento, fondato da Aldo Capitini appena un anno prima. Inizialmente il GAN è composto da cinque giovani di città diverse che scendono in piazza per chiedere il riconoscimento dell’obiezione di coscienza al servizio militare.
Daniele Lugli, che ha vissuto quell’esperienza coordinata da Pietro Pinna, la rievoca soffermandosi sulle cose minute: la preparazione dei cartelli, la scelta degli slogan, lo scoprirsi capaci di interloquire con la gente anche quando la pensa in un modo diverso. I suoi ricordi sono importanti per noi oggi, non una ricetta ma una iniezione di fiducia e uno stimolo a interrogarsi sul modo in cui viviamo e comunichiamo la tensione verso la nonviolenza.
(L’intervista è stata raccolta da Elena Buccoliero nel febbraio 2020).
Come si svolgeva una manifestazione del G.A.N.?
Era una cosa, in fondo, semplice da fare. Dei volantini nei quali si spiegava che cosa si chiedeva. Dei cartelli molto accurati, a Ferrara li facevamo nello studio d’arte del nostro amico Maurizio Bonora quindi erano ben disegnati, intelaiati, con delle frasi scelte con attenzione, almeno così sembrava a noi. Stavamo in piazza per molto tempo, fermi, con l’aria assolutamente inoffensiva, dietro ai nostri cartelli.
Com’erano i vostri messaggi?
Ah, il mio preferito era: La libertà non ha pericoli se non per chi ha in animo di tradirla. Giuseppe Mazzini. Ma ce n’erano tanti altri. Ognuno si sceglieva la frase che sentiva più vicina.
Nell’insieme erano cartelli decisamente diversi da quelli che si era abituati a vedere, né politici né religiosi, con messaggi molto differenti tra loro. C’era uno strano accostamento di cose vecchie e nuove, potevi trovare una citazione di San Cipriano accanto a una informazione su Amnesty International, ancora poco conosciuta. L’effetto finale era spiazzante ma in modo non artefatto, semplicemente i cartelli erano il frutto dei nostri percorsi culturali e ognuno aveva il proprio cartello e ci teneva moltissimo, voleva portare proprio quello.
Ecco, soprattutto c’era molta autocensura. Ci ritrovavamo a preparare il materiale, ci scambiavamo gli slogan, e ogni volta la solita domanda: «Serve? Ci aiuterà a comunicare con la gente?».
E vi aiutava davvero?
Beh, nel corso delle manifestazioni abbiamo scoperto che eravamo in grado di parlare con le persone. Che l’obiezione non era un tema inesistente in Italia. Che avevamo possibilità di ascolto, e anche chi la pensava diversamente da noi non era così radicale da rendere difficile il dialogo. Ecco, c’era nella gente questa buona disponibilità al dialogo accanto alla nostra capacità di intrattenerlo.
Poi cominciarono ad arrivare i divieti. Noi mandavano il nostro avviso alla questura, che avremmo tenuto la manifestazione, e loro ce la vietavano.
Perché, le prime manifestazioni erano autorizzate?
Sì – indugia con una specie di sorriso –, sì e no, ma insomma… non c’erano interventi. Le prime manifestazioni furono nello stesso ’63. In agosto formiamo il gruppo e nell’autunno cominciamo: Milano, Bologna, Firenze. A Milano Piero Pinna decide di mettersi un camiciotto con sopra scritto obiezione di coscienza e gira per Milano con alcuni altri distribuendo volantini. Lo fermano, lo portano via, però non è neanche chiaro perché lo fermassero perché non era una distribuzione di stampa clandestina, i volantini erano stati depositati, e non succedeva niente di particolare. Difatti l’hanno rilasciato, però già si vedeva che c’era un’attenzione. Poi siamo stati a Bologna. Quella fu la prima manifestazione di un certo peso.
Com’è andata?
Bologna è vicina a Ferrara, lì ero nelle condizioni di portare gli amici, non in massa però un buon numero di ferraresi, con anche un cartellone molto grande… E poi in piazza a Bologna c’è pieno di gente, e poi la gente ha voglia, soprattutto ne aveva allora, di avvicinarsi, di parlare, di discutere… Avviavamo dei gruppi di discussione con dentro sempre uno del Gan, in modo da riportare il tema perché, come si vede in queste cose, poi ci si mette a parlare di tutt’altro. È stato un momento bello, ci ha permesso di provarci a questa modalità di comunicazione con le persone.
Ricordo bene anche la manifestazione di Firenze. Eravamo andati in sei o sette solo da Ferrara ma c’era stata vietata. Ci siamo limitati a diffondere dei volantini, a protestare contro il divieto, ma ci siamo fermati lì.
I volantini parlavano del divieto o dell’obiezione di coscienza?
Parlavano dell’obiezione di coscienza e poi ne avevamo fatto anche uno che parlava del divieto. C’era anche un grande un manifesto firmato non solo da noi ma da tante associazioni fiorentine, di protesta nei confronti del divieto a manifestare. Allora a Firenze collaboravamo con un’associazione di giovani che ricordo bene, Nuova Resistenza di Alberto Scandone. C’era il sostegno della Chiesa Evangelica e altre firme… varie minoranze, un potpourri di minoranze.
Le manifestazioni venivano vietate perché…!?
Oh… Per ragioni d’ordine pubblico. Noi obiettavamo che era insensato vietare l’esposizione di cartelli il cui contenuti erano noti ed erano anche meramente descrittivi: “in questi paesi già è riconosciuta l’obiezione di coscienza”, “Esiste Amnesty International che si cura dei prigionieri di coscienza”. Questi potevano essere i cartelli più politici rispetto alla citazione di Mazzini. Dicevamo anche: saremo in quattro, saremo in otto… quello che era, insomma.
Le comunicazioni alla questura, anche e non solo a Ferrara, in genere le facevo io. Anche per risparmiare a Pinna, che era già segnato dalle condanne sulla sua obiezione di coscienza, un aggravio da questo punto di vista. Poi così (ride), da giovane laureato in giurisprudenza, mi sembrava che fosse compito mio fare questo.