Se c’è una vicenda che descrive perfettamente il funzionamento del sistema di violenza nel quale siamo collettivamente immersi è quella di Julian Assange, “colpevole” di aver disvelato al mondo la verità sulla guerra in Afghanistan ed Iraq e per questo nemico pubblico numero uno del complesso militare-industriale statunitense e dei governi satelliti. La lettura del libro “Il potere segreto. Perché vogliono distruggere Julian Assange e WikiLeaks” (Chiarelettere, 2021) di Stefania Maurizi ne è la prova documentata, da parte di una giornalista d’inchiesta che ha contribuito al disvelamento indagando su tutti i documenti segreti di WikiLeaks.
La prima vittima di ogni guerra è sempre la verità, attraverso la coltre fumogena che viene costruita intorno ad essa per giustificarla, legittimarla, nasconderne crimini ed atrocità all’opinione pubblica esercitando così il livello più profondo di violenza, quello culturale, che sta alla base e sostiene i livelli superiori: la violenza strutturale dell’enorme massa di risorse pubbliche sottratte agli investimenti civili e dirottate – normalmente senza obiezioni rilevanti – su armamenti ed occupazioni militari; la violenza diretta delle centinaia di migliaia di vittime civili, le torture, le abiezioni dell’umanità che sono la quotidianità di ogni guerra, ma che sono – appunto – accuratamente nascoste. Disvelare il livello sottostante e più profondo della violenza della guerra – rivelarne le menzogne, la crudeltà, gli interessi in gioco, l’illegittimità – significa dunque mettere in crisi e rischiare di far crollare l’intero sistema di violenza e il fiume di risorse vi sono deviate: per il complesso militare industriale non c’è colpa più grave. E’ quella di cui si è macchiato Julian Assange attraverso la piattaforma WikiLeaks, mentre la stampa internazionale aveva (ed ha) abdicato al suo ruolo fondamentale, trasformandosi spesso da “cane da guardia” del potere a megafono delle sue menzogne, “come quando, nei mesi precedenti l’invasione dell’Iraq il New York Times aveva pubblicato notizie infondate sui tentativi di Saddam Hussein di procurarsi armi di distruzione di massa. – Scrive Stefania Maurizi – Il “Times” aveva contibuito a una campagna mediatica che aveva reso accettabile anche per l’opinione pubblica politicamente agli antipodi dell’amministrazione Bush, l’invasione dell’Iraq e la guerra devastante che ne seguì: un bagno di sangue di almeno 600.000 morti”
Quel “potere segreto” del complesso militare-industriale – sul quale aveva già messo in guardia come pericolo costante per la democrazia il presidente Eisenhiwer fin dal 1961 – dispiega la sua potenza contro Assange e WikiLeaks a partire dal 2010, quando il ventitreenne soldato Manning, operativo a Bagdad con le truppe di occupazione USA, in quanto esperto informatico con il compito di fare l’analisi dei flussi di informazione, avendo così accesso a documenti riservatissimi, si imbattè nei cosiddetti “effetti collaterali” della guerra, le vittime civili ed innocenti, scoprendo che spesso “collaterali” non erano affatto, ma piuttosto vittime di crimini deliberati. Manning riusciva a venire in possesso, tra le altre cose, del video che riprendeva l’uccisione meticolosa di un gruppo di civili – tra i quali due bambini e due giornalisti della Reuter – da parte di soldati USA del 12 luglio 2007 e decideva che quel materiale, che raccontava il vero volto della “missione di pace” era necessario che fosse conosciuto dall’opinione pubblica: “Voglio che la gente veda la verità, perché senza informazione l’opinione pubblica non può prendere decisioni in modo consapevole”. Per questo cerca, in un primo momento, di comunicare con i grandi giornali statunitensi, come Washington Post e New York Times, per passare loro le informazioni, ma questi non rispondono. A quel punto contatta Wikileaks, che il 5 aprile 2010 diffonde il video della strage, dal titolo “Collateral Murder” (ancora oggi visibile in rete). Nelle settimane successive Manning passa a Julian Assang, che di Wiekileaks è il fondatore, circa 700mila file segreti in cui si parla di migliaia di civili uccisi tra gli iracheni e gli afghani e mai conteggiati tra le vittime di guerra e degli ordini ricorrenti di lasciar correre sui frequenti abusi, sia di parte americana che delle nuove forze armate irachene, addestrate dagli statunitensi ed a loro fedeli. Manning viene scoperto ad arrestato il 29 maggio. Per Manning – che nel frattempo diventerà Chelsea – è l’inizio di un calvario nelle carceri statunitensi, per Assange è l’inizio di una lunga vicenda di disvelamenti sulle occupazioni militari in Iraq ed Afganistan e di una parallela persecuzione infinita, della quale il libro di Stefania Maurizi documenta accuratamente tutte le tappe, in molte delle quali la stessa giornalista è testimone diretta.
Dai disvelamenti sulle guerre in Afganistan e Iraq al “Cablegate”, da quelli sulla prigione di Guantanamo “il buco nero della civiltà” alle accuse di stupro, dalla furia della Cia al lungo esilio nell’ambasciata dell’Equador a Londra, dall’arresto e prigionia nella guantanamo inglese fino alla richiesta di estradizione in corso da parte degli Stati Uniti. “Oggi” – scrive Stefania Maurizi – “il fondatore di WikiLeaks rischia una condanna a 175 anni di carcere nella prigione di criminali efferati, come El Chapo, per aver pubblicato documenti su crimini di guerra, torture, assassini stragiudiziali con i droni, abusi sui detenuti di Guantanamo. Mentre quei criminali di Stato non hanno passato un solo giorno in galera”. Non è una pena ma un avviso esemplare per tutti i giornalisti liberi: questo è la fine che fa – anche nelle democrazie occidentali – chi vuole ficcare il naso nella verità delle guerre. Per questo, leggere e far leggere “Il potere segreto” non è solo la partecipazione personale ad un disvelamento della verità su vent’anni di ignobile guerra globale infinita ma – come per l’autrice – significa anche dare un contributo alla costruzione di una società “in cui è possibile rivelare crimini di guerra e torture, senza finire in prigione e arrivare tre volte sull’orlo del suicidio, come è successo a Chelsea Manning. Senza scappare in Russia come è stato costretto a fare Edward Snowden. Senza perdere la libertà per oltre dieci anni e rischiare il suicidio come è accaduto a Julian Assange. (…) Una società in cui il potere segreto risponde alla legge e all’opinione pubblica delle sue atrocità. Dove ad andare in galera sono i criminali di guerra, non chi ha la coscienza e il coraggio di denunciarli e i giornalisti che ne rivelano la criminalità”.
Leggere e far leggere questo libro significa partecipare, insomma, al disvelamento del più profondo e duraturo livello di violenza che pervade tutte le società contemporanee, quello del complesso militare-industriale. E contribuire così al suo superamento.