Così Pier Cesare Bori chiamava l’opera del gigante russo, impegnato nella riforma religiosa e nella battaglia per la pace, successiva alla sua “conversione” ad un “cristianesimo anarchico”, rigorosamente evangelico, fuori dalle chiese ufficiali, antidogmatico. Questo secondo Tolstoj, ispiratore di Gandhi, è ancora troppo poco conosciuto rispetto al primo, l’autore dei grandissimi romanzi, nonostante la molta produzione etica, religiosa, civile, pacifista, che occupa due terzi dei 90 volumi dell’opera omnia.
Ha scoperto, curato e pubblicato Guerra e rivoluzione Roberto Coaloa, storico, slavista, accurato studioso di Tolstoj. Questo scritto è del 1904-1905. Tolstoj lo stese durante la guerra russo-giapponese (vinta dal Giappone per cedimento della Russia) e all’inizio della prima rivoluzione russa, ma non poté pubblicarlo in Russia. Uscì a Parigi con difficoltà nel 1906 e fu presto introvabile. Non esiste né in inglese né in russo, perciò questa edizione italiana, per merito di Coaloa, è praticamente la prima di un inedito finora sconosciuto, eppure importante per conoscere la profezia rigorosamente pacifista di Tolstoj: non resistere alla violenza, non imitarla, ma disobbedirle.
Il cristianesimo – dice Tolstoj – ha proclamato la legge del mutuo soccorso, invece della violenza, ma l’umanità cristiana non l’ha applicata. Il lusso degli uni e la miseria degli altri sono aumentati, specialmente tra i popoli che hanno abbandonato la vita naturale dei campi e si sono sottomessi alle menzogne statali. Ora devono liberarsi dalla superstizione statalista e rifiutare di obbedire alla violenza del governo. Il popolo russo ha sentito prima degli altri popoli le cause del malessere che ha inondato l’umanità.
Questa è la grande portata della rivoluzione che ora comincia in Russia. Le cause che l’hanno provocata sono le stesse in tutto il mondo. Le nazioni sono piegate sotto il peso degli armamenti, le masse operaie sono miserabili, i popoli sono spogliati del diritto naturale alla terra. La maggioranza dei russi vede che tutti i suoi mali vengono dalla sottomissione ai poteri pubblici. La partecipazione alla violenza del governo condurrà a mali ancora peggiori. L’unico mezzo per liberarsi sarà l’insubordinazione al governo e quindi l’abolizione degli stati raggruppati con la violenza. Per realizzare la grande rivoluzione basta capire che lo stato è una finzione violenta, mentre la realtà è la vita e la vera libertà. Non si deve sacrificare vita e libertà al feticcio dello stato, ma negargli criminale obbedienza. Con questo cambiamento finisce un’era e ne comincia una nuova.
Così Tolstoj conclude il suo libro. Egli vuole che si agisca con la nonviolenza, che intende come «non resistenza al male mediante la violenza», e Gandhi volgerà in positivo, come lotta con la forza dell’amore e della verità (satyagraha). Nella Rivoluzione russa del 1905, Tolstoj implora: «placare l’ostilità, non parteggiare, distogliere dall’odio, perché tutto questo sa di sangue». «Si uccide da entrambe le parti. La contraddizione, come sempre, sta nel fatto che con la violenza si vuole arrestare la violenza». Il grande russo soffre questa contraddizione tra la profezia e la fede nell’avvento pacifico della pace con l’amore universale, e l’estrema distanza tra tale avvento e la realtà presente.
La sua tensione è seme di un albero sano che sta crescendo tenace nella selva umana. Merito dell’estremismo ispirato di Tolstoj è la denuncia forte di quanta violenza si annida, a tutt’oggi anche per noi, nelle istituzioni statali, che credono di potere difendere i diritti (anzi, gli interessi particolari) dei cittadini (anzi, dei privilegiati), con la violenza legalizzata: eserciti, prigioni, competizione, diseguaglianze. Abbiamo realizzato democrazie che in gran parte sono oligarchie. Anche le religioni sono interpellate da Tolstoj.
Enrico Peyretti (3 novembre 2016)