Sono stato recentemente in Albania per una visita al progetto che coordino a distanza. Qualche sera prima si era svolta la partire fra Serbia e Albania a Belgrado. Le provocazioni serbe e quella albanese con un drone che cala sul campo con una bandiera dai confini ampi, la conseguente invasione di campo con il rischi di linciaggio della squadra albanese. Tutto questo lo abbiamo visto sulla cronaca, in Albania non si parla d’altro e la tensione fra i due stati si è alzata. Nei discorsi della gente sentivo quelle motivazioni ataviche che non sentivo dai tempi in cui il Kossovo era la mia casa. Da una e dall’altra parte sono sicuro che il cardine del discorso sia: noi siamo le vittime, loro ci hanno provocato, noi non abbiamo colpa! La vittoria del non dialogo. Fortunatamente ci sono anche buone notizie, sono piccole gocce nel mare ma sono una realtà.
Sara, volontaria in Albania di Operazione Colomba lavora tutti i giorni per combattere il fenomeno delle vendette di sangue e trasformare le vendette in riconciliazioni. Il pezzo che segue, scritto da Sara, racconta un giorno della sua intensa settimana. (F.B.)
L’incontro giusto al momento giusto
“Tutto è iniziato sugli spalti degli stadi”. Così Fabrizio racconta di come gli odi tra tifoserie siano stati il detonatore di odi più profondi, covati sotto la cenere di secoli di pacifica convivenza, trascinando i Balcani in una delle pagine più buie della storia recente. Oggi, a distanza di qualche anno, uno sterile nazionalismo ammorba due paesi vicini, riverberandosi anche nella quotidianità del progetto in Albania.
Qualche settimana fa una partita di calcio tra Serbia e Albania per le qualificazioni ai campionati europei del 2016 si è conclusa con la sospensione del gioco, mentre in campo spettatori e calciatori si trasformavano rapidamente in nemici. Durante il gioco, un drone che esibiva la bandiera della cosiddetta Grande Albania – comprensiva del Kossovo – è stato pilotato sopra il campo, scatenando la violenza della tifoseria serba e la conseguente reazione della squadra albanese. Da quella sera, due paesi sono in stato di agitazione: i media ripropongono incessantemente le immagini della partita, i rappresentanti istituzionali programmano visite diplomatiche a scopo distensivo, anche i cittadini meno fanatici si lanciano in violenti attacchi verbali.
E’ in questo clima di rivalità che si è proposto ai ragazzi provenienti dalle famiglie in vendetta di incontrare due persone speciali: Jovan (serbo) e Sokol (albanese). Si era deciso di farli incontrare qualche settimana prima, ma per un motivo o per l’altro l’organizzazione non era andata nel verso giusto. Quindi, riprogrammato l’incontro, si è scelto un freddo pomeriggio di fine ottobre: mai momento fu più adatto! Si sono presentati in cinque, uno più agguerrito dell’altro, per conoscere di persona “il serbo”. Tra una battuta e una provocazione, i nostri ospiti si sono passati la parola in un dialogo che sapeva di amicizia ritrovata – loro che, giovani del gruppo studio del progetto in Kossovo, prima nemmeno si rivolgevano la parola. Hanno raccontato le loro difficoltà a raccontare l’uno all’altro le proprie sofferenze, la necessità di intuire il dolore dell’altro, come se prima non ci si fosse resi conto che anche gli altri soffrono.
I ragazzi erano attentissimi, i più irrequieti seduti sul bordo del divano in atteggiamento di sfida, rapiti da ogni parola pronunciata in quella lingua ostica che Sokol si affrettava a tradurre per loro. Finalmente esce la questione spinosa: la partita di calcio, motivo del contendere, che riapre vecchie ferite. I nostri ospiti dissentono in merito allo status del Kossovo: l’uno lo ritiene una regione del proprio Paese, l’altro va fiero della sua indipendenza.
Dov’è la ragione? La ragione non c’è, è stata soppiantata dal dialogo.
Costruire ponti è la nostra missione, lo scopo che ci tiene legati a questa terra. Come in passato si sono intessute relazioni personali tra serbi e albanesi, così ora si lavora per una riconciliazione tra famiglie. Con quali strumenti? In passato “in Kosovo si utilizzavano molto gli accompagnamenti ai ragazzi nelle rispettive zone di residenza”, racconta Fabrizio, che mediava tra loro quando ancora Jovan e Sokol faticavano a rivolgersi la parola. Successivamente, si è chiesto loro di assumersene la responsabilità in prima persona: i ragazzi serbi accompagnavano i coetanei albanesi nel proprio villaggio; i ragazzi albanesi ricambiavano il favore in città.
Questa stessa prospettiva c’è anche qui, a Scutari, dove ci piacerebbe che fossero i ragazzi con cui lavoriamo a farsi carico della scelta della riconciliazione. Del resto, è il loro momento: hanno tra le mani il futuro del loro Paese. Non lo possono sperperare perdendosi tra le pieghe di vendette stantie e senza senso, abbandonandosi all’odio cieco, per calcolare quanto valgono le pretese dell’uno e quelle dell’altro, per contare quanti morti ci sono da una parte o dall’altra, per decidere chi ha ragione e chi ha torto.
Dov’è la ragione? La ragione non c’è, è stata soppiantata dall’amore.
Sara