- Little: bambino, trova in Juan e Teresa una boccata d’aria fresca dalle oppressioni del bullismo e di una madre tossicodipendente.
- Chiron: adolescente, vittima delle violenze dei compagni di scuola e delle carezze del migliore amico, finisce in carcere per una risposta troppo aggressiva ad una provocazione troppo aggressiva.
- Black: adulto, una volta uscito dal carcere ha modo di riconciliarsi con la madre e con il migliore amico.
Moonlight mette in scena infanzia, adolescenza ed età adulta di un afroamericano gay cresciuto fra i quartieri popolari e le spiagge di Miami. La sceneggiatura nasce dall’adattamento della pièce a forte componente autobiografica di Tarell Alvin McCraney, In Moonlight Black Boys Look Blue. La divisione in tre atti successivi non è dell’originale (nella pièce i tre momenti vengono mostrati simultaneamente sulla scena) ma risulta dalla trasposizione cinematografica che ne fa Jenkins e, per quanto contribuisca a ritmare la pellicola, rende forse un po’ didascalica l’associazione dei tre diversi nomi alle tre tre fasi della vita di Chiron: il film riflette, infatti, sulle difficoltà per una minoranza di costruirsi un’identità autonoma anche e soprattutto qualora questa si discosti da quella etero definita del contesto socio-culturale coercitivo in cui la minoranza si trova inserita.
Sul problema dell’identità Jenkins si era soffermato anche nella sua precedente (e prima) pellicola, Medicine for Melancholy (2008), a partire dall’incontro fra le culture indie e afroamericana. Anche in questo caso si tratta di dar voce alle minoranze fra le minoranze, portando sullo schermo la storia di un ragazzo nero e omosessuale e facendo fare un passo avanti alla pratica decostruttiva dello stereotipo: l’universo nero dipinto da Moonlight sembra discostarsi da quello dell’immaginario cinematografico classico appiattito sulle sole problematiche razziali e ne dà una rappresentazione decisamente più sfaccettata.
Come costruirsi, tuttavia, una propria identità (sia essa personale o cinematografica) in uno spazio che sembra essere solo di altri? A dispiegare la poetica del film lo scambio di battute riportato da Juan fra lui ed una vecchia signora che riprende il titolo della pièce –“In moonlight, black boys look blue”. “You’re blue”. “That’s what I’m gonna call you: ‘Blue’.” – : lo spazio della notte (tema su cui è stata recentemente pubblicata una bella riflessione di Michaël Foessel: La nuit: vivre sans témoin, Paris, Autrement, 2017) si offre a Chiron come uno spazio nuovo, aperto alle possibilità di ridefinizione e reinvenzione ed illuminato da una luce diversa da quella diurna degli spazi già codificati. Non è un caso che sia la luce notturna ad accompagnare la maggior parte dei momenti significativi per la maturazione del protagonista.
Allo stesso modo, per il regista lo spazio filmico è rappresentato soprattutto dall’inventario di strumenti narrativi ed estetici che gli permettono di rivisitare in chiave black cinema le situazioni più tradizionali: la ricerca di un’identità estetica traspare da ogni dettaglio, dai toni lirici con cui è trattata una vicenda il più delle volte piuttosto cruda ad una fotografia attentissima a valorizzare la particolarità cromatica dei suoi soggetti.
Parlando di black cinema, in un’intervista per il The Guardian Mia Mask (Contemporary Black American Cinema : Race, Gender and Sexuality at the Movies, Londra, Routledge, 2014) sostiene che l’“African American cinema is a metaphor for black experience because it is a history of the struggle for inclusion.” : Moonlight è infatti, allo stesso tempo, storia della costruzione dell’identità di un individuo e metafora della storia di una minoranza cinematografica che si fa spazio a Hollywood.
Il miglior film agli Oscar di quest’anno è un film nero che non appiattisce l’universo nero sul solo problema razziale, è un film LGBT che propone dei personaggi ancora poco rappresentati sul grande schermo, ed è un film a basso costo che tuttavia non rinuncia alla ricerca di un’identità estetica. Congratulazioni.