Luis Sepùlveda – tutti i racconti (Mondadori – 470 pagine)
A cura di Bruno Arpaia – Traduzione di Ilide Carmigiani
Il cantore degli ultimi
La scomparsa di Luis Sepùlveda ha lasciato un segno di profondo dolore in tutti noi che siamo convinti che questo non è il migliore dei mondi possibili.
Lo scrittore cileno ha sempre messo al primo posto i diseredati, i reietti della terra, quelli che sembrano sconfitti dalla realtà, ma che, invece, incarnano i valori migliori.
Nelle sue storie ha sempre delineato, senza retorica, un’umanità dolente, alla perenne ricerca di riscatto e mai doma, anche se spesso destinata all’insuccesso. Il teatro principale delle sue epopee malinconiche è stato il Sud America, con i nativi, gli indios come principali depositari di saggezza e rispetto, pur se messi ai margini della società.
Ma spesso ha ambientato le sue vicende in Europa, in particolare in Germania e in Italia. Aveva un rapporto stretto con il nostro paese: ne amava la cucina e il vino, la storia, l’arte e quella particolare forma di disincanto, che non è rassegnazione, che spesso era un tratto caratteristico dei suoi personaggi. Ma c’era di più: anche ragioni familiari. Nell’albero genealogico, una sua parente lontana, un’avuela, una nonna di chissà quante lontane generazioni era nata qui, nella città dove vivo, Livorno.
Questo libro raccoglie tutti i racconti di questo immenso scrittore, grande affabulatore e uomo dallo spirito buono e generoso.
Purtroppo qui da noi, nonostante una tradizione importante, da Calvino a Buzzati, la forma breve è considerata minore rispetto al romanzo.
Non sono d’accordo. Il punto è che non sono paragonabili. Sono due terreni profondamente diversi, con proprie regole e dinamiche interne che li rendono simili, ma distanti. Come il calcio e il calcetto, per rimanere in un ambito sportivo caro al nostro autore.
Come amava ripetere in molte interviste, Sepùlveda si sentiva più a suo agio nel racconto. Citava spesso una frase di un altro grande scrittore sud americano, Cortàzar, che diceva:
“Nel combattimento che si scatena fra un testo appassionante e il lettore, il romanzo vince sempre ai punti, mentre il racconto deve vincere per knockout.”
Ed è in questo ambito che lo scrittore cileno dà il meglio di sé, creando figure nette con poche pennellate, con uno stile che mescola sapientemente frasi brevi e periodi più articolati, in un ritmo trascinante dalla forza espressiva profonda.
Va dritto al punto, senza fronzoli, trascinandoti subito nel mezzo dei villaggi sperduti in Patagonia dietro un vecchio che nasconde un tesoro dove nessuno potrà mai trovarlo. Oppure in Nicaragua accanto a un gruppo di guerriglieri ribelli travestiti da pugili per attraversare la frontiera.
E il Cile, la sua terra, con il sogno socialista di Allende e la barbarie di Pinochet, con le madri che ancora cercano i propri figli scomparsi e i militari impuniti che spadroneggiano per le strade, dove, di notte, si aprono spazi di ribellione e rivalsa.
Ma arriviamo anche nella nebbia di Amburgo, tra amori, ombre e sparizioni. Oppure nel cielo nuvoloso di Parigi e delle sue promesse, spesso non mantenute.
Fino ad arrivare a El Idilio, l’immaginario villaggio, dove un Vecchio leggeva romanzi d’amore.
O a un incontro tra un ambasciatore cileno e il suo corrispettivo cinese, nel quale Sepùlveda dà un saggio della sua grande abilità di scrittore, mettendo a confronto due culture opposte, descrivendo la difficoltà dei due interpreti a tradurre il linguaggio figurativo orientale e quello pratico della terra spaccata del deserto di Atacama.
Due visioni opposte, che trovano un punto di incontro nel tabacco, nel fumo che riesce a evocare un piacere condiviso.
Quel sigaro, che sempre lo accompagnava e che, sicuramente, ha indebolito quei polmoni dove il maledetto virus si è insediato e non se n’è più andato.
Ma i grandi autori, in realtà, non muoiono mai.
Le loro storie continuano e questa raccolta consente di seguire l’opera di questo maestro della narrativa, seguendo, quasi in ordine cronologico più di quarant’anni di scrittura, evidenziando l’evoluzione, la continua ricerca di precisione e leggerezza, pur nella drammaticità della trama.
La voce di Sepùlveda è inconfondibile. Se si inizia ad ascoltare, la si riconosce. Come un cantante che apprezzi e che ritrovi anche dopo una sola parola alla radio.
E credo che questo libro sia un ottimo approdo per chi lo ha già letto prima in alcune delle sue opere più conosciute, come ‘Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare’, ‘Jacaré’, ‘Il Mondo alla fine del mondo’. Oppure per quelli che ancora non lo conoscono e che possono scoprirlo attraverso la forma che più lui sentiva naturale, più adatta al suo modo di scrivere. Rileggerlo adesso è anche un modo per ricordarlo, per omaggiare un autore che per tutta la vita ha voluto ribadire di non arrendersi mai, anche se la meta sembra irraggiungibile.
Per concludere, mi permetto di citare una frase di un altro scrittore sudamericano, argentino, amico di colossali cene e bevute con Sepùlveda, Eduardo Galeano:
“L’utopia è come l’orizzonte. Mi avvicino di un passo e quello si allontana di un passo. Mi muovo verso di lui di due passi e quello scappa indietro di due passi. Allora a cosa serve l’orizzonte? A non perdere mai la voglia di camminare.”
Buon cammino Luis.
Bevi un bicchiere alla nostra salute
470 pagine
Acura di Bruno Arpaia
Traduzione di Ilide Carmigiani
IL CANTORE DEGLI ULTIMI
La scomparsa di Luis Sepùlveda ha lasciato un segno di profondo dolore in tutti noi che siamo convinti che questo non è il migliore dei mondi possibili.
Lo scrittore cileno ha sempre messo al primo posto i diseredati, i reietti della terra, quelli che sembrano sconfitti dalla realtà, ma che, invece, incarnano i valori migliori.
Nelle sue storie ha sempre delineato, senza retorica, un’umanità dolente, alla perenne ricerca di riscatto e mai doma, anche se spesso destinata all’insuccesso. Il teatro principale delle sue epopee malinconiche è stato il Sud America, con i nativi, gli indios come principali depositari di saggezza e rispetto, pur se messi ai margini della società.
Ma spesso ha ambientato le sue vicende in Europa, in particolare in Germania e in Italia. Aveva un rapporto stretto con il nostro paese: ne amava la cucina e il vino, la storia, l’arte e quella particolare forma di disincanto, che non è rassegnazione, che spesso era un tratto caratteristico dei suoi personaggi. Ma c’era di più: anche ragioni familiari. Nell’albero genealogico, una sua parente lontana, un’avuela, una nonna di chissà quante lontane generazioni era nata qui, nella città dove vivo, Livorno.
Questo libro raccoglie tutti i racconti di questo immenso scrittore, grande affabulatore e uomo dallo spirito buono e generoso.
Purtroppo qui da noi, nonostante una tradizione importante, da Calvino a Buzzati, la forma breve è considerata minore rispetto al romanzo.
Non sono d’accordo. Il punto è che non sono paragonabili. Sono due terreni profondamente diversi, con proprie regole e dinamiche interne che li rendono simili, ma distanti. Come il calcio e il calcetto, per rimanere in un ambito sportivo caro al nostro autore.
Come amava ripetere in molte interviste, Sepùlveda si sentiva più a suo agio nel racconto. Citava spesso una frase di un altro grande scrittore sud americano, Cortàzar, che diceva:
“Nel combattimento che si scatena fra un testo appassionante e il lettore, il romanzo vince sempre ai punti, mentre il racconto deve vincere per knockout.”
Ed è in questo ambito che lo scrittore cileno dà il meglio di sé, creando figure nette con poche pennellate, con uno stile che mescola sapientemente frasi brevi e periodi più articolati, in un ritmo trascinante dalla forza espressiva profonda.
Va dritto al punto, senza fronzoli, trascinandoti subito nel mezzo dei villaggi sperduti in Patagonia dietro un vecchio che nasconde un tesoro dove nessuno potrà mai trovarlo. Oppure in Nicaragua accanto a un gruppo di guerriglieri ribelli travestiti da pugili per attraversare la frontiera.
E il Cile, la sua terra, con il sogno socialista di Allende e la barbarie di Pinochet, con le madri che ancora cercano i propri figli scomparsi e i militari impuniti che spadroneggiano per le strade, dove, di notte, si aprono spazi di ribellione e rivalsa.
Ma arriviamo anche nella nebbia di Amburgo, tra amori, ombre e sparizioni. Oppure nel cielo nuvoloso di Parigi e delle sue promesse, spesso non mantenute.
Fino ad arrivare a El Idilio, l’immaginario villaggio, dove un Vecchio leggeva romanzi d’amore.
O a un incontro tra un ambasciatore cileno e il suo corrispettivo cinese, nel quale Sepùlveda dà un saggio della sua grande abilità di scrittore, mettendo a confronto due culture opposte, descrivendo la difficoltà dei due interpreti a tradurre il linguaggio figurativo orientale e quello pratico della terra spaccata del deserto di Atacama.
Due visioni opposte, che trovano un punto di incontro nel tabacco, nel fumo che riesce a evocare un piacere condiviso.
Quel sigaro, che sempre lo accompagnava e che, sicuramente, ha indebolito quei polmoni dove il maledetto virus si è insediato e non se n’è più andato.
Ma i grandi autori, in realtà, non muoiono mai.
Le loro storie continuano e questa raccolta consente di seguire l’opera di questo maestro della narrativa, seguendo, quasi in ordine cronologico più di quarant’anni di scrittura, evidenziando l’evoluzione, la continua ricerca di precisione e leggerezza, pur nella drammaticità della trama.
La voce di Sepùlveda è inconfondibile. Se si inizia ad ascoltare, la si riconosce. Come un cantante che apprezzi e che ritrovi anche dopo una sola parola alla radio.
E credo che questo libro sia un ottimo approdo per chi lo ha già letto prima in alcune delle sue opere più conosciute, come ‘Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare’, ‘Jacaré’, ‘Il Mondo alla fine del mondo’. Oppure per quelli che ancora non lo conoscono e che possono scoprirlo attraverso la forma che più lui sentiva naturale, più adatta al suo modo di scrivere. Rileggerlo adesso è anche un modo per ricordarlo, per omaggiare un autore che per tutta la vita ha voluto ribadire di non arrendersi mai, anche se la meta sembra irraggiungibile.
Per concludere, mi permetto di citare una frase di un altro scrittore sudamericano, argentino, amico di colossali cene e bevute con Sepùlveda, Eduardo Galeano:
“L’utopia è come l’orizzonte. Mi avvicino di un passo e quello si allontana di un passo. Mi muovo verso di lui di due passi e quello scappa indietro di due passi. Allora a cosa serve l’orizzonte? A non perdere mai la voglia di camminare.”
Buon cammino Luis.
Bevi un bicchiere alla nostra salute!