• 21 Novembre 2024 22:58

L’umanità al bivio. Ricordare Hiroshima e Nagasaki per impedire la “soluzione finale” dell’umanità

DiPasquale Pugliese

Ago 6, 2024

Nel 2019 un gruppo di ricercatori dell’università di Princeton, guidati dal professor Alex Glaser, svolse una simulazione sugli effetti di una guerra nucleare tra Russia e Nato. Il modello era basato sulla reale dotazione nucleare delle potenze in campo e sui rispettivi obiettivi strategici ed aveva come ipotesi di avvio un primo colpo “tattico” nucleare inviato dall’esclave russa di Kaliningrad – l’antica Königsberg, città di Immanuel Kant autore, tra l’altro, del progetto Per la pace perpetua… – con l’obiettivo di fermare l’avanzata della Nato verso i confini russi, e la conseguente risposta nucleare USA-Nato. La previsione realistica fu che in soli 45 minuti sarebbero stati causati 85,3 milioni di morti, senza contare le vittime legate agli effetti successivi delle radiazioni nucleari. Una immane e repentina ecatombe dell’umanità e della civiltà. Quella distruzione di mondi della Bhagavadgītā, evocata da Robert Oppheneimer (“sono diventato morte, distruttore di mondi”), il fisico a capo del progetto Manhattan, quando assistette all’effetto dirompente dell’esplosione della bomba Trinity nel deserto di Los Alamos, test definitivo con il quale il presidente degli USA Harry Truman darà il via allo sganciamento delle bombe su Hiroshima e Nagasaki, il 6 e il 9 agosto del 1945. Come abilmente narrato nel pluripremiato film di Cristopher Nolan.

 

Ricordiamo brevemente i fatti. Sempre di più gli storici che hanno potuto esaminare i documenti USA desecretati riconoscono che il governo giapponese era pronto ad arrendersi circa un mese prima che piovesse le prima bomba atomica, e sicuramente prima che arrivasse anche la seconda. Ma il presidente Truman, che era da poco succeduto a Roosevelt, non intendeva dissipare i risultati della costosissima tecnologia messa a punto segretamente con il progetto Mahanattan, e diede ugualmente il via allo sganciamento dei due ordigni atomici. «La vera posta in gioco» – scrisse Zygmunt Baumann su quella decisione – «può essere facilmente dedotta dal trionfante discorso presidenziale il giorno successivo alla distruzione di centinaia di migliaia di vite a Hiroshima: “Abbiamo fatto la scommessa scientifica più audace della Storia, una scommessa da due miliardi di dollari – e abbiamo vinto!» (Le sorgenti del male, 2021). Tre giorni dopo la stessa funesta scommessa venne riversata anche su Nagasaki. Furono 220.000 le vittime dirette delle due esplosioni, quasi esclusivamente civili inermi, e circa altre 150.000 quelle successive per le conseguenze delle radiazioni nucleari. Il più grande e impunito crimine di guerra della storia dell’umanità. Mentre chiudeva la Seconda guerra mondiale, si avviava la corsa agli armamenti della cosiddetta Guerra fredda e iniziava per l’umanità l’era della possibilità dell’autodistruzione

Non passarono neanche dieci mesi da quel cambio di paradigma nella guerra moderna, avvenuto a spese degli inermi abitanti delle due città giapponesi rase al suolo, quando in Italia cominciarono i lavori dell’Assemblea Costituente. Essa aveva perfettamente chiaro che la guerra non era ormai più utilizzabile, non solo “come strumento di offesa della libertà degli altri popoli” ma neanche come “mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”. Dopo gli oltre sessanta milioni di morti della della guerra appena conclusa, le armi nucleari avrebbero dovuto rendere definitivamente obsoleta la guerra, fenomeno da archiviare tra i ferrivecchi della storia. L’articolo 11, posto tra i Principi Fondamentali della Costituzione, dice esplicitamente proprio questo ed obbliga, implicitamente, a ricercare e costruire le alternative alla violenza bellica (“pace con mezzi pacifici”, recita la Carta delle Nazioni Unite), compatibili con la continuazione della specie umana sulla terra. E’ l’etica della responsabilità che innerva la Costituzione e attraversa la parte migliore del pensiero politico del Novecento.

A cominciare dal Manifesto per il disarmo nucleare stilato pochi anni dopo da Albert Einstein e Bertrand Russell e sottoscritto da illustri scienziati del tempo, da Max Born a Linus Pauling, di una disarmante attualità:

«Dobbiamo imparare a pensare in modo nuovo. Dobbiamo imparare a domandarci non già quali misure adottare affinché il gruppo che preferiamo possa conseguire una vittoria militare, poiché tali misure ormai non sono più contemplabili; la domanda che dobbiamo porci è: quali misure occorre adottare per impedire un conflitto armato il cui esito sarebbe catastrofico per tutti?»

Secondo Einstein e Russell l’alternativa ormai è radicale: «metteremo fine al genere umano o l’umanità saprà rinunciare alla guerra?» E, per noi, qui e ora, più attuale che mai. Vale la pena aggiungere che nel 1955, anno di pubblicazione del Manifesto, uno dei momenti di maggiore crisi durante la Guerra fredda, le lancette del Doomsday clock, l’orologio dell’Apocalisse – indicatore simbolico del pericolo nucleare dell’umanità messo a punto dal Bollettino degli scienziati atomici fin dal 1947 a Chiacago – era fissato pericolosamente a due minuti dalla mezzanotte, ossia dall’ora della fine dell’umanità. Oggi la situazione è estremamente peggiorata: a quasi un anno dall’invasione russa dell’Ucraina, nel gennaio 2023, la nuova posizione delle lancette aveva toccato i 90 secondi, il punto più pericoloso mai raggiunto per la sicurezza dell’umanità, confermato ancora quest’anno. Ed Antonio Guterres, Segretario generale delle Nazioni Unite, lo scorso 8 giugno ha ribadito che «L’umanità è sul filo del rasoio: il rischio che venga usata un’arma nucleare ha raggiunto livelli mai visti dai tempi della Guerra Fredda».

Eppure, salvo alcuni Grandi vecchi come Papa Francesco ed Edgar Morin, entrambi intervenuti all’Arena di Pace di Verona del 18 maggio scorso (seppure il secondo con un video-messaggio registrato), decisori, intellettuali e media sembrano, in grande maggioranza, non avere la percezione del pericolo che stiamo correndo, in questo varco della storia, con la continua escalation della guerra tra potenze nucleari in corso in Europa. Dimenticando colpevolmente la lezione di filosofi come Günther Anders che avevano messo al centro della propria riflessione esattamente la questione della situazione dell’umanità nell’epoca della possibilità dell’autodistruzione atomica. Secondo Anders, nella nostra epoca, qualunque azione politica, in particolare all’interno di una dimensione di conflitto internazionale, non può non tenere conto della “situazione atomica”:

«La tesi apparentemente plausibile che nell’attuale situazione politica ci sarebbero (fra l’altro) anche armi atomiche, è un inganno. Poiché la situazione attuale è determinata esclusivamente dall’esistenza di armi atomiche, è vero il contrario: che le cosiddette azioni politiche hanno luogo entro la situazione atomica». (Tesi sull’età atomica, si trovano in Appendice a Essere o non essere. Diario di Hiroshima e Nagasaki, 1995)

L’agire politico, dunque, per essere dotato di responsabilità e realismo deve inevitabilmente tenere conto di questo contesto all’interno del quale bisogna ritrovare “il coraggio di aver paura”. La paura, infatti, è segno di consapevolezza e ha perciò un valore euristico, cioè di strumento di conoscenza della realtà, oltre che di sprone alla mobilitazione.

Ricordare, dunque, lo sganciamento delle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki, non è – non può essere – la celebrazione di un irripetibile evento storico passato ma rappresenta – deve rappresentare – la presa di coscienza dello stato presente del mondo. Della sua attuale riproducibilità: «il 6 agosto 1945, giorno di Hiroshima» – scrive ancora Anders – «è cominciata una nuova era: l’era in cui possiamo trasformare in qualunque momento ogni luogo, anzi la terra intera, in un’altra Hiroshima». Se questa possibilità è ormai irreversibile sul piano dell’acquisizione delle competenze tecnologiche – ed appare sempre più vicina – è tuttavia modificabile attraverso l’acquisizione dei saperi etici che consentano di imboccare l’unica uscita di sicurezza esistente: la cancellazione delle armi nucleari dalla faccia della terra, con la loro definitiva proibizione, e il superamento della guerra come strumento di risoluzione dei conflitti. Si tratta di colmare ciò che Anders chiama lo “scarto prometeico”, ossia la frattura che passa tra l’infinita capacità produttiva di distruzione e la nostra capacità immaginativa delle conseguenze.

In un pianeta nel quale, mentre la crisi sistemica globale moltiplica i conflitti, i governi moltiplicano le armi e le guerre, è necessario declinare il piano etico del dover essere sul piano politico della possibilità di essere ancora, dando un’ulteriore chance all’umanità attraverso precise scelte di disarmo. A partire dall’adesione al Trattato internazionale per la messa al bando delle armi nucleari. Si tratta del Trattato ONU voluto dall’azione dal basso dei popoli attraverso la campagna ICAN, vincitrice nel Nobel per la Pace nel 2017. In vigore dal 22 gennaio del 2021, esso mette fuori legge le testate atomiche, ma non è stato sottoscritto né dai nove governi dei paesi atomici (USA, Russia, Cina, India, Pakistan, Gran Bretagna, Francia, Israele, Corea del Nord) né dai governi dei paesi che “ospitano” testate altrui. Come l’Italia che “custodisce” tra le basi militari di Ghedi (Brescia) ed Aviano (Pordenone) diverse decine di testate atomiche statunitensi, facendo così della Pianura padana il primario obiettivo di un possibile attacco nucleare su territorio europeo. Preparandone il non essere più, come nella realistica simulazione di Priceton.

Mentre scrivo queste righe da consegnare alla redazione, i popoli europei stanno votando per le elezioni del Parlamento di Strasburgo. Questo mi fa tornare in mente le note preparatorie, scritte probabilmente nel 1987, per il testo di un intervento di Alberto Moravia mai svolto al Parlamento europeo, dove l’intellettuale italiano era stato eletto nel 1984, (oggi inserito in appendice a L’inverno nucleare, 2022), che è utile rileggere ancora:

«Nei primi anni del dopoguerra la situazione era questa: la Germania nazista aveva elaborato una teoria (quella della cosiddetta soluzione finale ossia del genocidio totale) che giustificava la bomba come la sola arma che permettesse la strage di massa ma non aveva saputo creare la bomba. Gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica dal canto loro non avevano alcuna teoria che giustificasse la bomba ma avevano la bomba. Anzi, gli Stati Uniti, nel 1945, avevano costruito e lanciato la bomba (…). Al processo di Norimberga» – continuava lucidamente Moravia – «la teoria della bomba (cioè della soluzione finale) fu solennemente condannata come una teoria contraria alle leggi della guerra. Ma non ci si accorse che non bastava condannare la teoria ma si doveva mettere fuori legge l’arma nucleare che di quella teoria era l’indispensabile corollario. Questa mancata consapevolezza del segreto e strettissimo rapporto tra bomba e teoria della soluzione finale impedì di rendersi conto che Hitler, lungi dall’essere stato sconfitto, era il vero vincitore della seconda guerra mondiale».

Saprà l’Europa, questa volta, impedire il dispiegamento della soluzione finale dell’umanità, con la resistenza attiva e nonviolenta contro la Terza guerra mondiale, che, se sarà, sarà nucleare? A ciascuno il compito urgente di fare la sua parte.

Di Pasquale Pugliese

Pasquale Pugliese, nato a Tropea, vive e lavora a Reggio Emilia. Di formazione filosofica, si occupa di educazione, formazione e politiche giovanili. Impegnato per il disarmo, militare e culturale, è stato segretario nazionale del Movimento Nonviolento fino al 2019. Cura diversi blog ed è autore di “Introduzione alla filosofia della nonviolenza di Aldo Capitini” e "Disarmare il virus della violenza" (entrambi per le edizioni goWare, ordinabili in libreria oppure acquistabili sulle piattaforme on line).