Ma, occorre precisarlo, sono soltanto le notizie comparse nel mese di giugno; se ampliassimo la ricerca all’intero anno scolastico 2018/19, c’è da credere che compiremmo un lungo viaggio su e giù per l’Italia.
Il problema sarebbe in via di risoluzione grazie al futuro impiego delle telecamere. La proposta è sostenuta da tutte le parti politiche e si suddivide, in realtà, in due parti: la norma che introduce la videosorveglianza nelle scuole e negli istituti di cura per anziani e disabili, e un emendamento al decreto “Sblocca cantieri” per assegnare la copertura finanziaria degli interventi, prevista in 5 milioni per il 2019 e 15 milioni all’anno dal 2020 al 2024.
Stando alla proposta di legge n. 480/19 pubblicata sul sito della Camera dei Deputati le telecamere non saranno obbligatorie. Riporto per intero l’art. 1, Vigilanza negli asili nido e nelle scuole dell’infanzia: 1. Gli asili nido comunali e privati e le scuole dell’infanzia statali, comunali e paritarie possono dotarsi di un sistema di videosorveglianza costituito da telecamere a circuito chiuso con immagini criptate, al fine di garantire una maggiore tutela dei minori ospitati nelle medesime strutture. 2. Le registrazioni dei sistemi di video-sorveglianza di cui al comma 1 possono essere visionate esclusivamente dalle Forze di polizia soltanto a seguito di denuncia di reato presentata alla competente autorità.
“Possono dotarsi”, non “devono”, e l’installazione avverrà classe per classe. Un testo del tutto analogo è all’art. 2, dedicato agli istituti di cura. Seguono alcune specifiche tecniche negli articoli successivi e poi, nell’ultimo – l’art. 6 – una delega al Governo in materia di selezione, formazione di base e continua, e supervisione, del personale impiegato negli asili nido, nelle scuole dell’infanzia e nelle strutture per anziani e disabili. Così la legge rinvia ad un futuro non troppo definito (i tempi per l’effettivo svolgimento delle deleghe non di rado slittano), ma quantomeno cita, interventi che molto di più potrebbero condurre alla radice del problema: la qualità della preparazione degli operatori cui vengono affidati i più fragili, il fatto che possano continuare a rinnovare la loro formazione e condividere la fatica di un lavoro sicuramente carico di responsabilità, di soddisfazioni ma anche – è innegabile – di fatica, specie se si ripete sempre uguale a se stesso per decenni.
Si potrebbe dire che il tema è urgente ma viene affrontato incominciando dalla fine, privilegiando il controllo. La norma mi pare soprattutto a vantaggio della magistratura, facilitata nell’assunzione delle prove senza prendersi il disturbo di disporre intercettazioni ambientali, ma è intuibile una finalità preventiva oltre che repressiva. Nella cultura del sospetto che imperversa ormai in tanti settori il ragionamento sarebbe questo: siccome so che potresti maltrattare mio figlio, ti punto addosso una telecamera così ti controllo – e mi metto tranquillo. E in questo sospetto, e in questa tranquillità, c’è un seme che ci deve, invece, preoccupare. Quale relazione educativa è possibile in assenza di fiducia tra genitori e insegnanti?
Il governo promette, in prospettiva, la possibilità di installare le telecamere anche nelle aule di tutte le altre scuole, fino alle secondarie di secondo grado, se lo vorranno. E questo, ci viene detto, risponderebbe a una sollecitazione di insegnanti e dirigenti scolastici che hanno bisogno di proteggersi dagli studenti e qualche volta anche dai genitori.
A parte l’immagine vivida, che subito mi compare, dei molti modi in cui gli adolescenti danneggeranno gli apparecchi di videosorveglianza… Il desiderio di impegnarsi un po’ meno nel rapporto con i ragazzi, ché tanto ci penseranno le telecamere a tenerli buoni, accresce la mia inquietudine e segna l’ulteriore sgretolarsi di quel rapporto fiduciario basato sul mettersi in gioco personalmente, in modo autentico, nella relazione educativa quotidiana. Il che, non c’è dubbio, è un esercizio faticoso.
La gravità dei fatti denunciati mina quella fiducia in radice. Il loro susseguirsi deve farci pensare non ad un insieme di eventi isolati ma ad un fenomeno sociale su cui sarebbe auspicabile un’analisi approfondita per mettere a fuoco le caratteristiche sia dei contesti lavorativi, sia degli operatori coinvolti.
A un primo sguardo mi pare che diversi tra gli indagati abbiano tra i 50 e i 60 anni, cioè siano in servizio da parecchi anni. Il primo punto sensibile è dunque l’organizzazione del lavoro di cura. Un insegnante medio, sulla cinquantina, che sia in servizio già da trent’anni, senta di non farcela più e sappia di avere davanti a sé ancora parecchi anni di lavoro prima del pensionamento, quali alternative ha? Sono previste delle strade per riconvertire la sua esperienza professionale? È poi così legittimo dare per scontato che in un nido o in una scuola materna si debba lavorare dai venti ai sessanta e sempre con la medesima freschezza, attenzione, capacità e resistenza?
Un altro aspetto è la valenza “educativa” della violenza, fisica e psicologica, che viene rimessa in discussione. Assistiamo in questi anni a casi opposti: genitori che aggrediscono i professori dei loro figli, sindacalisti rissosi contro un 5 in matematica, e altri, generalmente non italiani, che agli insegnanti dicono “gli dia una sberla”, riferendosi al figlio che sennò non sta alle regole, e non lesinano di procedere in tal senso a casa. Lo stesso succedeva qualche decennio fa in tantissime famiglie italiane, e oggi ancora in una parte delle famiglie italiane. È molto bene che l’uso della forza contro i bambini ci indigni, ma ricordiamo che non l’abbiamo sempre pensata così, e tuttora in tante famiglie, anche autoctone, le punizioni fisiche ci sono.
“Ma io voglio bene ai bambini”. Sarebbe stata questa la reazione di una maestra di fronte ai Carabinieri che bussavano alla sua porta. In un modo tutto suo probabilmente era sincera.