• 5 Novembre 2024 10:23

Madri unite contro la violenza istituzionale

DiElena Buccoliero

Ago 12, 2020

(Articolo modificato in data 26 agosto 2020)

Per quanto si apprende, il figlio, di 10 anni, rifiuta di incontrare il padre. Secondo la madre il bimbo ha paura del papà in seguito alle violenze familiari di cui è stato testimone; secondo i giudici del Tribunale per i Minorenni (TM), invece, è manipolato dalla madre che lo tiene lontano dal papà. L’ultimo provvedimento del TM prevedeva pertanto che il bambino fosse trasferito presso il padre con un’assistenza domiciliare h24 e incontrasse la madre ogni 15 giorni alla presenza degli operatori; qualora non ci fossero stati gli estremi per passare dalla casa della mamma a quella del papà, avrebbe dovuto essere accolto temporaneamente in una struttura per minori. Nel gennaio scorso la Corte d’Appello minorile si è pronunciata mantenendo il bambino con la mamma e rimettendo gli atti al Tribunale per i Minorenni per un percorso graduale e articolato di riavvicinamento nella relazione padre-figlio. Entrambi i genitori restano sospesi nell’esercizio della responsabilità genitoriale.

La vicenda è lunga e complessa. Ne ho notizia attraverso il decreto della Corte d’Appello e i media che l’hanno più volte richiamata in questi mesi (vedi, tra gli altri, Avvenire, Il fatto quotidiano, Il Sussidiario, la Repubblica, DIRE) poiché quello prospettato come “caso Laura Massaro” non risulterebbe isolato nella giustizia italiana ordinaria e minorile, stando appunto alla denuncia del Comitato madri unite contro la violenza istituzionale.

La Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio e sulla violenza di genere si sta interessando al tema con un’indagine sulle prassi e i percorsi formativi di magistrati, avvocati e consulenti di parte, e con l’analisi di 572 procedimenti per separazione giudiziale. La ricerca si propone di verificare se e come la violenza nella coppia viene presa in considerazione dal sistema giustizia, e dovrebbe essere presentata nell’ottobre prossimo.

Sarebbero tanti i casi nei quali donne che hanno denunciato la violenza del partner rischiano l’allontanamento dei bambini perché ritenute alienanti, morbose, simbiotiche e via di questo passo. Il rifiuto dei figli di vedere il padre viene interpretato come frutto del condizionamento materno, un modo per far entrare dalla finestra, magari senza neppure nominarla, quella “sindrome di alienazione parentale (PAS)” che il DSM V, manuale diagnostico delle malattie mentali, ha fatto uscire dalla porta, negando che esista una patologia individuabile con questo nome.

Non conosco quei 572 fascicoli, ma che questa forma di violenza istituzionale avvenga nei tribunali italiani, e le donne non siano sempre credute quando chiedono protezione per sé e per i bambini, è confermato da diversi casi di cronaca sfociati in violenze estreme, e ritorna nella mia esperienza.

Continuo a non capire. Se un bimbo ha paura del papà, perché forzare il bambino e non, invece, ascoltarlo? Un figlio che dice no agli incontri può avere delle ragioni proprie, e non indotte; può esprimere un bisogno che va preso sul serio. E se ha assistito alla violenza sulla madre, anziché forzarlo bisognerebbe chiedere al padre di riconoscere i propri errori e cercare di superarli.

Intendiamoci: negare la PAS non esclude che i condizionamenti esistano, e in fondo tutti noi basiamo i nostri convincimenti rielaborando esperienze che in qualche modo ci influenzano. Peraltro anche picchiare una donna davanti ai figli è un modo per condizionarli. Ribattono infatti le madri: i bambini non vogliono incontrare il papà perché è stato violento davanti a loro. Una violenza di cui gli stessi bambini sono oggetto già per avervi assistito, e spesso per esserne stati colpiti direttamente.

Che cosa accade, dunque, in molti di questi casi? La donna avanza una querela contro il maltrattante e questo dà impulso ad un procedimento penale. Poi, non volendo più vivere insieme, chiede – o entrambi chiedono – la separazione o di regolare l’affidamento dei figli, e da qui un procedimento civile.

Non di rado, nelle separazioni, l’avvocato suggerisce alla donna il ritiro della querela per maltrattamenti, stalking, lesioni… per mostrare al giudice la disponibilità a non accanirsi sul passato. Del resto è frequente che le querele vi siano da ambo le parti: da una parte le botte, dall’altra l’allontanamento dei bambini, la sottrazione di beni o altro, e i difensori non di rado concordano il ritiro delle accuse da ambo le parti. Aggiungiamo il fatto che una separazione consensuale è più rapida e meno costosa di una giudiziale, quindi più conveniente per tutti. Il ritiro delle querele però interrompe quasi sempre i procedimenti penali (solo per le violenze gravissime si va avanti d’ufficio) e vanifica la testimonianza delle vittime. Nel caso dei maltrattamenti quelle umiliazioni, quelle lesioni, quei lividi, dal punto di vista giudiziario scompaiono, è come non fossero mai esistiti.

Torniamo in sede civile, dove si decide sull’affidamento dei figli. Sulla base della Convenzione di New York, legge per l’Italia dal 1991, e delle norme successive, i bambini dai 12 anni in avanti (ancor prima se capaci di discernimento) hanno il diritto di essere ascoltati dal giudice. Per quanto ne so, nei tribunali ordinari accade raramente, e comunque l’udienza può non essere sufficiente; in più ci sono gli infradodicenni per i quali prendere decisioni. Si procede affidando una ctu (consulenza tecnica d’ufficio) a uno psicologo giuridico, affinché valuti la situazione e indichi il migliore affidamento dei piccoli.

Ora, se come spesso accade il giudice civile chiede al consulente di ignorare i maltrattamenti, in quanto non ancora confermati da sentenza (o neppure oggetto di accertamento in sede penale, se le querele sono state ritirate), è evidente che la valutazione sarà scollata dalla realtà. Le eventuali aggressioni non sono solo reati che secondo la legge sono avvenuti dopo essere stati accertati in sede penale, sono un’esperienza tangibile nei pensieri e nelle emozioni delle persone coinvolte. Non capirlo è una miopia che conduce a decisioni violente in sede civile, come concludere che il bambino ha paura del papà per colpa della mamma e per questo deve abitare col papà. E d’altra parte, che altra motivazione si potrebbe pensare, se non la perfidia delle donne, una volta che i maltrattamenti siano stati esclusi all’origine?

Il senatore Pillon aveva tentato di fissare questo percorso mentale. Il disegno di legge non è passato ma, a quanto pare, diversi tribunali lo stanno applicando, con il plauso di parte dell’opinione pubblica. È un fatto molto grave. Dà il segno di quanto il peso della violenza familiare sulla crescita dei bambini sia misconosciuto, nella cultura diffusa e in quella giudiziaria.

Le conseguenze sono molteplici e pervasive. Innanzitutto si riducono le possibilità di proteggere donne e bambini da ulteriori violenze; non si possono emanare ordini di protezione, o stabilire incontri protetti padre-figlio, se manca l’indizio che qualcosa di grave sia già avvenuto.

Ulteriore conseguenza, questo orientamento di parte della magistratura fa sì che le donne diventino sempre più restie a denunciare per paura di perdere l’affidamento dei figli, e così non si proteggono, e non proteggono i loro bambini.

Leggo su Il Fatto Quotidiano un inquadramento ancora più ampio, secondo cui dietro tutto questo ci sarebbe un disegno complessivo di stampo maschilista per rimettere le donne al loro posto, presumo tra cucina e camera da letto. Ancora, il settore prevalente della psicologia giuridica avrebbe sposato questo indirizzo e lo trasmetterebbe nella formazione di psicologi, avvocati e magistrati, assicurandosi la propria sopravvivenza e generosi incassi (per una consulenza tecnica, anche 8-10mila Euro).

Personalmente sono molto contenta che il Comitato delle madri ci sia, ritengo porti avanti una lotta necessaria, fondata, giusta contro la negazione della violenza familiare, che è poi violenza istituzionale. Sono sempre perplessa quando le rivendicazioni vengono urlate. Mi sembra si confezioni una griglia di lettura del reale dietro cui è facile nascondersi. Ho conosciuto madri maltrattate che erano anche, e indipendentemente dalle violenze subite, maltrattanti, o tossicodipendenti, non in grado di occuparsi dei figli in quella fase della loro vita. Voglio dire, cioè, che niente è semplice e univoco, e venire picchiate dal partner non significa automaticamente essere buone madri. Ogni caso va guardato volta per volta e in profondità.

La bigenitorialità è un diritto dei bambini prima e più che dei genitori. Un diritto che può e deve essere contratto, anche solo temporaneamente – per il padre, o la madre, o entrambi – qualora sia, dolorosamente, necessario.

 

 

Di Elena Buccoliero

Faccio parte del Movimento Nonviolento dalla fine degli anni Novanta e collaboro con la rivista Azione nonviolenta. La mia formazione sta tra la sociologia e la psicologia. Mi occupo da molti anni di bullismo scolastico, di violenza intrafamiliare e più in generale di diritti e tutela dei minori. Su questi temi svolgo attività di formazione, ricerca, divulgazione. Passione e professione sono strettamente intrecciate nell'ascoltare e raccontare storie. Sui temi che frequento maggiormente preparo racconti, fumetti o video didattici per i ragazzi, laboratori narrativi e letture teatrali per gli adulti. Ho prestato servizio come giudice onorario presso il Tribunale per i Minorenni di Bologna dal 2008 al 2019 e come direttrice della Fondazione emiliano-romagnola per le vittime dei reati dal 2014 al 2021. Svolgo una borsa di ricerca presso l’Università di Ferrara sulla storia del Movimento Nonviolento e collaboro come docente a contratto con l’Università di Parma, sulla violenza di genere e sulla gestione nonviolenta dei conflitti.

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