L’intervento delle forze dell’ordine, nelle manifestazioni o in altre situazioni critiche, può avere segno diverso in relazione a tanti fattori. Tra questi, il mandato e la formazione impartita agli agenti. Ne parla Daniele Lugli in questa intervista condotta da Elena Buccoliero nel 2015. In quel momento Daniele era Difensore civico della Regione Emilia-Romagna e si era interessato anche di questi temi in seguito a episodi specifici. Non rientravano esattamente nei suoi compiti (tra le materie di competenza di un difensore civico non c’è il lavoro delle forze di polizia), ma lui si era attivato ugualmente contando sulla leale collaborazione tra le istituzioni che, a onor del vero, ha sempre ricevuto.
Si possono fare varie considerazioni su ciò che motiva la violenza delle forze dell’ordine nelle diverse situazioni, oltre alla necessità, per esempio di fronte a persone armate. Tra le ipotesi – faziose e no – c’è una funzione politica, una frustrazione personale e professionale, la mancanza di mezzi, e certo anche la mancanza di formazione. Che cosa pensi di quest’ultimo aspetto? Può essere uno degli aspetti da cui partire? E come può essere tenuto collegato agli altri?
È è un mestiere delicatissimo, quello del poliziotto o del carabiniere, che richiede equilibrio e vocazione, e molta attenzione alle persone. Spesso anche questo manca. Ma succede anche in altri mestieri, come quello di insegnante. Lo scarso civismo, senso di legalità, che ci appare generalizzato nel nostro Paese non è compensato dall’indossare una divisa, che magari aggiunge arroganza e prepotenza, e voglia di rifarsi delle umiliazioni e frustrazioni alle quali la professione spesso espone.
Mi fai pensare che è difficile dare ciò che non si riceve. L’attenzione alle persone, se è poco presente strutturalmente nelle forze di polizia – e io non so se è così, ma potrebbe – capisco sia difficile rivolgerla ai cittadini, quando si ha una divisa addosso. Perciò forse sarebbe auspicabile una trasformazione più profonda, di una formazione migliore. Ma forse è utopistico.
C’è stato, nella polizia, un periodo di impegno per giungere alla possibilità di sindacati e dunque di organizzazioni democratiche che bilanciassero la gerarchia interna, e tra gli stessi carabinieri non manca chi si ricorda la necessità di conformarsi all’ordinamento democratico della Repubblica. Anche in questo caso la potestà conferita agli agenti, che può giungere fino a impedire radicalmente la libertà di uno o più cittadini, è un potere conferito nell’interesse dei cittadini stessi, e questo è un aspetto che non può essere dimenticato ma deve essere continuamente tradotto in pratiche coerenti, per complesso che sia. Ed è vero che, se il potere che sugli agenti si esercita ha caratteri autoritari e repressivi, più facilmente l’azione degli agenti avrà gli stessi, magari accentuati, caratteri. Una formazione, per la quale so esserci impegno sia nelle forze di polizia che nei carabinieri, non può controbilanciare aspetti strutturali. E ancora, non sarà l’aggiunta della materia nonviolenza, alle altre molte materie di studio per diventare graduati o ufficiali, che può porvi rimedio.
E tuttavia, che cosa della nonviolenza – come approccio e come strumenti nella gestione dei conflitti – può a tuo avviso essere utile per un tutore dell’ordine? E poi io a volte mi chiedo anche se il tema nonviolenza verrebbe preso sul serio… Forse travestito da comunicazione interpersonale o altro avrebbe maggiori possibilità?
Due elementi fondamentali: l’attenzione alle persone, visto il potere sulle stesse che si è chiamati ad esercitare, e l’adeguatezza dei mezzi rispetto al fine che si persegue, per cui se si può comprendere che in situazioni di difficoltà le persone “comuni” reagiscano, più che agire consapevolmente prevedendo gli sviluppi e considerando le conseguenze delle proprie azioni, lo stesso non vale per gli specialisti della sicurezza, che agiscono tenendo conto della sicurezza propria e di quella delle persone, tutte, per le quali un potere così critico è loro affidato.
O che almeno dovrebbero agire così. Cioè dovrebbero essere messi in grado di farlo, sia come consapevolezza di sé e autocontrollo, perché immagino che anche in divisa si possa avere paura, sia come capacità di lettura delle situazioni. Una formazione alla nonviolenza potrebbe aiutare in questo?
Sì, perché è una formazione ad affrontare il conflitto e, per quanto possibile, a trasformarlo evitando conseguenze fatali o comunque gravi per le persone coinvolte. È molto importante riflettere su quanto è avvenuto e avviene sia nei confronti di manifestazioni tumultuose che nel fermo di persone difficili da contenere. Come ripete Pat Patfoort, non possiamo cambiare il passato ma possiamo impostare un futuro diverso. Invece spesso sembra che in queste situazioni venga ripetuto un copione già noto.
Non so se altrove, certamente in Emilia Romagna, sono state sperimentate politiche per la sicurezza che prevedevano tra l’altro la formazione congiunta tra forze di polizia, operatori socio-sanitari, volontariato ed altro. Tu stesso le hai sollecitate. Con quali obiettivi possibili e quali ricadute?
Qualche ricaduta positiva, pur modesta, c’è stata. Ci sono stati progetti, condivisi dalle diverse componenti, entrati nelle pratiche operative e che già vedono una collaborazione tra istituzioni diverse. Ma dev’essere, questa, una caratteristica permanente della formazione, non un’iniziativa di tanto in tanto. Penso ad esempio che, per quello che riguarda le manifestazioni sindacali o simili, una formazione comune potrebbe esserci, promossa dai sindacati, appunto, dei lavoratori, polizia compresa, e organismi di rappresentanza dei carabinieri inclusi, perché le manifestazioni e le dimostrazioni siano quello che il nome sta a significare. Così una formazione che vede come essenziale l’intervento di diverse competenze professionali abitua a una collaborazione nelle situazioni critiche e quindi al ricorso a chi è meglio preparato per affrontarle o alla miglior combinazione delle competenze disponibili. Certo è una preparazione che ha bisogno di continui aggiornamenti, anche perché le persone debbono assumere decisioni difficili e impegnative spesso in tempi rapidissimi. È dunque importante che abbiano l’abitudine a cogliere i tratti fondamentali di ciò che si presenta.
In un pensiero nonviolento, sarebbe possibile una società senza polizia?
Gandhi la collocava in un futuro che non riusciva a vedere, anche se attribuiva questa miopia alla insufficienza della sua persuasione nonviolenta. Capitini ha parlato della necessità di forme di collaborazione con la polizia dandone quindi per scontata la presenza, anche se esperta nell’uso di strumenti non letali. Credo si possa prendere sul serio un’affermazione di Gandhi secondo la quale proprio gli agenti per la sicurezza pubblica dovrebbero essere “riformatori”, le avanguardie in un certo senso di una profonda trasformazione della società verso la nonviolenza, proprio perché a loro è affidata la possibilità di usare il massimo della repressione e della coercizione, sempre nel quadro di una democrazia che ha per sovrano il popolo, non il generale o il capo della polizia, o il Presidente della Repubblica, o il capo del Governo. Il loro comportamento concreto ci dice a quale livello di incivilimento perveniamo. Una formazione aperta, direbbe Capitini, e nel senso che ho cercato un po’ di indicare, mi pare potrebbe mettere su una buona strada.