Una nonviolenza senza antimilitarismo?
“Basterebbe che un solo popolo si ribellasse al ricatto della difesa per mettere in crisi il militarismo dappertutto” scriveva Carlo Cassola in “Rivoluzione disarmista”. E continuava: “ Patriotticamente mi auguro che questo popolo più intelligente degli altri sia il mio. […] Chi non capisce che è questo il terreno dello scontro decisivo tra progresso e reazione , tra civiltà e barbarie, è di destra, anche se si proclama di sinistra. In altre parole, o la sinistra vince la battaglia per la pace, o non avrà un’occasione di farsi valere, perché il mondo salterà in aria”. Cassola vedeva il militarismo come una catena che avvolge l’intero pianeta nelle sue spire mortali. E chiedeva a tutti noi di spezzare quella catena. Questa sua posizione gli è costata molto. Anche se a più d’uno, nell’area nonviolenta, l’antimilitarismo di Cassola non piaceva, perché, tagliando tutto di netto, sembrava deviare dalle complessità del problema, sembrava insomma semplificare troppo, resta il fatto che l’impegno teorico e pratico per il disarmo unilaterale rimane l’aggiunta politica rivoluzionaria dell’amico della nonviolenza, il terreno preparatorio per eccellenza di una società veramente nuova, così inedita e inaudita che non può e non deve essere esente da rischi e critiche.
È mai pensabile infatti che lasciando la realtà così com’è, senza coltivare un fertile terreno preparatorio, la nonviolenza possa affermarsi di colpo e diventare forza tale da vincere da un giorno all’altro in conflitti tenacemente radicati nel circuito sociale ed economico del mondo globalizzato? Per noi tale assunto è assolutamente illusorio finché restiamo, come siamo, in una fase embrionale di costituzione della nonviolenza organizzata – ma è proprio da questa assenza di coscienza della propria impreparazione che viene la cronica deriva dei vari movimenti pacifisti, che senz’aver prima posto il rifiuto integrale della guerra alla base del proprio operare, senza nulla cioè aver fatto in anticipo per costruire un fronte desto e lottante a delegittimare e scalzare lo strumento militare, si ritrovano poi investiti dal torrente della guerra sempre a mani vuote, ridotti semplicemente a condannarla, esecrarla o vanamente contrastarla con gesti d’assoluta irrilevanza, o addirittura a caldeggiarla prendendo la parte dell’uno o dell’opposto belligerante per motivi umanitari, di giustizia e via dicendo. Dunque l’antimilitarismo, l’abolizione di qualsivoglia esercito, si impone come l’esigenza primaria dappertutto nel mondo, fondamentale per togliere finalmente dalle mani di chiunque lo strumento chiave dello sterminio. Già è stato detto da tempo: “O l’umanità distruggerà gli armamenti, o gli armamenti distruggeranno l’umanità”.
Ma sentiamo a proposito proprio Marco Pannella: “Il nonviolento deve proporre qualcosa di altrettanto efficace della violenza, essere capace di fornire soluzioni altrettanto e più efficaci, se no è sconfitto come sempre è stato sconfitto in tanti anni. Non si può fare il pacifismo perdente, il pacifismo dei funerali”. Ci sarebbe da osservare, riecheggiandone un attimo il lamento, che non si capisce se in questa sua critica Pannella non si riferisca, piuttosto che ad altri, a se stesso e al suo partito, visti gli ormai parecchi lustri di suo ingaggio politico “nonviolento” con l’effige di Gandhi a proprio emblema .
Alla luce delle considerazioni precedenti, nulla v’è da eccepire, per esempio, all’iniziativa di fine anno ’90 di Pannella e altri radicali di recarsi da nonviolenti, disarmati, su uno dei due fronti combattenti nell’ex-Jugoslavia a dare il proprio sostegno, ideale, non militare, alla parte croata proditoriamente aggredita dall’esercito serbo. Ma tutto v’è da eccepire alle posizioni interventiste assunte da Pannella in ormai numerose occasioni, soprattutto in riferimento alla guerra del Kosovo e quella in Afghanistan. Su questo punto in particolare la divergenza con il Movimento Nonviolento italiano è ormai di vecchia data dopo l’intesa e la collaborazione nelle marce antimilitariste fino agli anni Settanta: il campo antimilitarista, che pure ne aveva costituito un nerbo originario , è ormai stato completamente dismesso dai Radicali e in particolare da Pannella. E con esso, a nostro avviso, è stata dismessa anche la credibilità del suo appello alla nonviolenza. Essa, in senso stretto e storicamente appropriato, è quella filosofia persuasa che propone e difende l’uso di mezzi nonviolenti anche in quelle situazioni estreme (per esempio, nel caso di resistenza ad una oppressione intollerabile) in cui la violenza è considerata per comune opinione legittima, anche quando le teorie tradizionali giustificano moralmente l’uso della guerra. Tale essendo dunque la nonviolenza, risulta allora priva di senso, l’imputazione di assoluta, dogmatica o metafisica che le viene fatta come una condanna o debolezza. È nonviolenza e basta – se poi essa piaccia o no è un altro paio di maniche: è propriamente questo fondarsi sull’asimmetria morale tra l’uccidere e il non uccidere che caratterizza la nonviolenza, asimmetria senza la quale il concetto stesso di nonviolenza non verrebbe a porsi. Parlare di nonviolenza e poi non tener conto del suo fondamento significa uscire dalla nonviolenza, negare la sua apertura .
Pannella, dal canto suo, ha sempre rivendicato che il padre della nonviolenza politica, il Mahatma Gandhi, sosteneva che il nonviolento si batte ad oltranza per evitare la guerra, ma nel momento in cui la guerra scoppia, “ha il dovere di schierarsi” per difendere la parte offesa. Direi che è arrivato il momento di mettere fine a questa mistificazione, spero involontaria, delle parole gandhiane. Una delle citazioni gandhiane cui il leader radicale fa ricorso per mascherare la sua posizione di aviolento pragmatico in autentica nonviolenza è questa : “Il mio dovere è di astenermi da ogni violenza e di indurre quante più creature a seguire il mio esempio. Ma sarei insincero nella mia fede se rifiutassi di sostenere in una giusta causa degli uomini o dei provvedimenti la cui azione non coincide perfettamente con i princìpi della nonviolenza”. Ora, esattamente a proposito dell’asimmetria di cui prima parlavamo viene ad esprimersi Gandhi nella prima parte della citazione, affermando il dovere per il nonviolento di astensione da ogni violenza. Una volta ben fissato e distinto questo suo proprio atteggiamento persuaso, nella seconda parte Gandhi non fa che esprimere la sua comprensione verso i comportamenti di quanti combattono per una giusta causa senza una persuasione alla nonviolenza. E parla così dell’opportunità di non andare ad una irrimediabile rottura con chi la pensa diversamente sui metodi di lotta avanzando la possibilità di un sostegno non certamente pratico, di partecipazione personale, ma di “simpatia”, come in una circostanza reale si espresse Gandhi nei confronti degli Alleati visti come difensori della democrazia contro il totalitarismo nazista, ma che avrebbe voluto impegnati ad un contrasto con mezzi nonviolenti. E difatti Gandhi continua spiegandosi meglio e contestualizzando la sua affermazione in merito al suo ruolo di politico all’interno del governo indiano: “Sebbene non sarei disposto a prendere parte attiva, in nessun modo, a nessuna guerra, si potrebbero presentare delle occasioni in cui sarebbe mio dovere votare a favore dell’addestramento militare di coloro che sono disposti a riceverlo. Sono perfettamente consapevole, infatti, che non tutti i membri del governo crederebbero nella nonviolenza, nel modo in cui io ci credo. E non è possibile rendere una persona o una società nonviolenta per imposizione. Non ho il coraggio di affermare che potremo fare a meno di una forza di polizia, come lo affermo riguardo all’esercito”. E così Pannella non completando con adeguata concentrazione la lettura prende un abbaglio interpretativo che lo porta a credere di essere colui il quale in Italia ha finalmente portato, con i suoi continui oscillamenti, la nonviolenza nel cuore della polis. Nel momento in cui, per esempio, Pannella va affermando che “la linea che da Gandhi a Bertrand Russell, da Luther King a Capitini, deve organizzarsi finalmente nel mondo” e che “il Partito radicale questo progetta e comincia ad attuare, in Italia e nel mondo” e che per far ciò “nonviolenza e democrazia politica devono vivere quasi come sinonimi”, possiamo accorgerci di questo suo aver subordinato l’etica alla politica. Infatti la nonviolenza, quella di Gandhi e Capitini , e la democrazia laica e liberale – questo intende Pannella per “politica” – non sono e non potranno mai divenire sinonimi. La prima è un’aggiunta religiosa alla politica che mette in movimento, e quindi in crisi, la democrazia comunemente intesa col fine di portarla all’apice del valore: l’omnicrazia, il potere di tutti che nessuno esclude. Solo in virtù di questa tensione la nonviolenza è intimamente e politicamente rivoluzionaria: “non abbiamo paura di questa parola, anzi ci diciamo senz’altro rivoluzionari proprio perché non possiamo accettare che la società e la realtà restino come sono ”.
Lo stravolgimento della posizione gandhiana viene compiuto non distinguendo l’atteggiamento del satyagrahi , presentato da Gandhi come proprio ineludibile dovere, dall’atteggiamento di quanti, non persuasi, non trovano altro mezzo che quello violento per fronteggiare il conflitto. Pannella viene così a citare anche una frase di Gandhi in cui egli dice di preferire al codardo che si sottomette passivamente all’oppressione, colui che invece vi si ribella con la violenza. Presentata a sé stante, la parziale citazione riduce banalmente Gandhi ad assertore della morale tradizionale della “violenza a fin di bene” con cui si viene giustificando e commettendo da secoli ogni sorta di delitti e di guerre. Dove finisce qui la nonviolenza come varco attuale della storia e di apertura all’inedito e la straordinaria novità della lezione politica gandhiana? Insomma anche qui il leader radicale prende un abbaglio interpretativo di difficile comprensione a meno che non si ipotizzi o la malafede o la lettura non completa del passo. Difatti anche qui, Pannella scorda la seconda parte della frase nella quale Gandhi, a scanso di equivoci, ribadisce la sua netta preferenza per la nonviolenza. Il Mahatma preferì la violenza solamente alla codardia, ma non l’ha mai considerata un atteggiamento moralmente lecito. “Non ho mai considerato la violenza – egli ha scritto in una occasione – come una cosa permessa. Ho semplicemente distinto tra il coraggio e la codardia. L’unica cosa lecita [lawful] è la non-violenza […] Tuttavia, sebbene la violenza non sia lecita, quando viene usata per autodifesa o a protezione degli indifesi essa è un atto di coraggio, di gran lunga migliore della codarda sottomissione” . Solo nel caso in cui si ponesse l’alternativa netta ed inevitabile tra codardia e violenza (ovviamente stiamo sempre parlando di una giusta causa) Gandhi consiglia la violenza. Ma appunto la consiglia, non la sceglie; e la consiglia a coloro i quali non sono persuasi della nonviolenza. Invece il satyagrahi, il persuaso, impegnato a porre la nonviolenza quale primario impegno del suo agire politico, ha solo un continuo interrogare da rivolgere a se stesso: che cosa ho fatto fin qui, nella certa previsione del succedersi altrimenti di orrende tragedie umane, affinché la nonviolenza entrasse nella considerazione del pensiero politico, nella coscienza popolare, nel costume quotidiano, e cosa posso fare ora per lavorare al suo servizio, aprirla ai tutti e organizzarla?