10 giugno 1924 – 10 giugno 2024. A cent’anni dall’assassinio per mano fascista di Giacomo Matteotti, pubblichiamo un’intervista a Mao Valpiana uscita sulla rivista “Il Senso della Repubblica”.
Gentile dottor Valpiana, voglio, prima di tutto, ringraziarla per aver accettato l’invito di SD. Nel centenario dell’assassinio di Matteotti vorrei discutere con Lei su taluni aspetti dell’opera del politico socialista, partendo dal libro di Daniele Lugli, Giacomo Matteotti, obiettore di coscienza (Edizioni del Movimento Nonviolento, Verona 2021).
Uno dei punti su cui l’autore sofferma maggiormente la sua analisi è la vicinanza che Capitini manifesta nei confronti dell’opera di Matteotti. Benché studiosi come Furiozzi e Tamburrano giudichino una forzatura il parallelo tra l’azione del politico veneto e la prassi nonviolenta, non si possono non mettere in luce le numerose citazioni ed elogi che l’intellettuale umbro esprime verso Matteotti in numerosi scritti e la scelta di concludere la I Marcia specifica del Movimento Nonviolento, nell’aprile del 1965, dinanzi al cippo, posto sul Lungotevere Arnaldo da Brescia a Roma.
A suo giudizio l’opposizione alla guerra che Matteotti ha espresso tanto durante la campagna di Libia, quanto nel primo conflitto mondiale, può essere ricondotta alla nonviolenza, visto che il politico rovighese usò «tutti gli strumenti che il diritto consente (scritti, propaganda, azioni)» si oppose «a ogni sua violazione, a ogni restrizione della possibilità di manifestazione anche in tempo di guerra»; trovando «il modo di non rinunciarvi anche di fronte ai divieti»?
Grazie a voi de “Il Senso della Repubblica” per questa occasione che mi offrite di dare un piccolo contributo all’importantissimo centenario della morte del grande Giacomo Matteotti.
Non so se possiamo definire Matteotti come un “nonviolento”, nel senso che diamo oggi a questa parola. Iscrivere d’ufficio, a posteriori, una persona ad un movimento, rischia di essere un’operazione arbitraria. Per il rispetto che ho dell’esperienza umana e politica del socialista Matteotti, preferisco non pronunciarmi ancora, anche se sarei tentato di dare una risposta positiva.
Quello che però di certo possiamo dire, è che molti nonviolenti del passato, per dare un orientamento alle loro scelte nonviolente e antimilitariste si sono ispirati direttamente a Giacomo Matteotti: Claudio Baglietto, Ada Costa, Silvano Balboni, Aldo Capitini. In questo senso certamente possiamo definire Matteotti come un maestro di nonviolenza.
Un sicuro riferimento per la radicale scelta di Silvano Balboni (1922 – 1948) , al momento della diserzione e poi nell’impegno per il riconoscimento dell’obiezione di coscienza, dell’opposizione intransigente alla guerra è Giacomo Matteotti. Il suo pensiero e la sua azione sono da Silvano ben conosciuti sia nell’ambiente familiare che nella frequentazione della maestra Alda Costa (1876 – 1944), socialista, martire antifascista. L’impegno per la pace della maestra è continuo e radicale, prima degli interventi dell’Italia nelle guerre per impedirli, durante le guerre per attenuarne gli effetti nefasti, con gli scritti e l’azione, pubblica e clandestina quando non possibile altrimenti. Perseguitata in ogni modo dai fascisti non risparmiò in nulla la propria vita, ma ebbe sempre pieno rispetto di quella altrui. Anche per Aldo Capitini (1899 – 1968) quello di Matteotti è stato, ed è rimasto per tutta la vita, un riferimento imprescindibile. Per quanto specificamente attiene la sua opposizione alla guerra in “Antifascismo tra i giovani” Capitini riferisce della lezione da Matteotti appresa e ai giovani da lui riproposta, richiamandosi al noto intervento del politico veneto, intitolato Dal punto di vista del nostro partito, comparso sulle colonne di “Critica Sociale” (1-15 febbraio 1915).
Nella stessa opera, Capitini mette in luce come: “Dà una grande forza rileggere oggi ciò che di Matteotti scrisse Piero Gobetti: “La protesta della guerra come violenza non era disfattismo, ma un atto di fede ideale: bisogna saper vedere in Matteotti, giurista, economista, amministratore, uomo pratico, queste pregiudiziali di disperata utopia, di assoluto idealismo, di reazione assurda contro la grettezza filistea dei falsi realisti. La generazione che noi dobbiamo creare è proprio questa, dei volontari della morte per ridare al proletariato la libertà perduta”[1].
Quanto a Balboni già si è detto che nel primo numero de “L’idea socialista” riproduce un pezzo del lungo articolo che Piero Gobetti aveva dedicato all’amico Giacomo e lo intitola “L’obiettore di coscienza”. Nel testo riprodotto addirittura sostituisce alla parola “pacifista” usata da Gobetti l’espressione “obiettore di coscienza”, che gli parve evidentemente più appropriata.
A distanza di più di un secolo le riflessioni di Matteotti sulla prima guerra mondiale rivestono un’attualità ed una lucidità sorprendenti. Nelle sue considerazioni emerge una grande senso di lungimiranza politica in merito agli obiettivi che occorreva raggiungere per la classe lavoratrice, partendo dalla centralità dell’opposizione alla prima guerra mondiale.
Di lì a qualche mese, con l’approssimarsi dell’ingresso del Regno d’Italia nella Grande Guerra, dalle colonne del settimanale polesano, Matteotti esprime un’amara riflessione sugli scenari futuri: «Noi non auguriamo e non desideriamo la vittoria di nessuno. Chiunque dei due raggruppamenti dovesse vincere vi sarà un popolo vinto che preparerà la rivincita per domani e quindi nuove guerre» (“La lotta”, 08.05.1915).
Tali considerazioni più volte sono state presentate nel corso del Secolo Breve e se osserviamo quanto sta accadendo negli ultimi decenni, l’evidenza di queste argomentazioni mostra a pieno tutta la sua efficacia. Come si spiega allora la caduta nel vuoto dei numerosi appelli a cessare le ostilità e a riporre le armi?
Violenza chiama violenza, sangue chiama sangue. La guerra è il risultato di questa catena, che si spezzerà solo se qualcuno deciderà di non stare più a questa logica, se si sottrarrà da questo destino segnato. Non servono a nulla appelli, petizioni, richieste – per quanto accorate – di cessare il fuoco, se non c’è almeno uno che smette di sparare, qualcuno che il fuoco non lo accende. Il disarmo bilanciato, controllato, concordato, nella storia non ha mai funzionato. Anzi, gli accordi e le conferenze per il disarmo generale hanno prodotto solo un costante riarmo, una corsa che non si è mai fermata. Solo il disarmo unilaterale (una delle due parti che decide di non armare più, di cessare il proprio fuoco) ha possibilità di funzionare. E quando è stato attuato ha innescato un processo virtuoso. Fu Gorbachev a compiere dei gesti unilaterali (moratoria sui test nucleari e ritiro di truppe dai confini del Patto di Varsavia), che portarono poi nel 1986 al vertice di Reykjavik con Reagan che poi sfociò negli accordi che ottennero lo smantellamento dei 2700 “euromissili” e la fine della “guerra fredda”.
Sull’inutilità degli appelli a fermare la guerra, si è espresso con durezza Pietro Pinna (il primo obiettore di coscienza e collaboratore di Capitini nel fondare il Movimento Nonviolento), con una aspra critica al tardivo movimento pacifista che si mobilita solo a guerra scoppiata[2]:
Ciò che serve, dal punto di vista della nonviolenza attiva, sono atti (personali o collettivi) di dissociazione, di obiezione, di diserzione, di non collaborazione con la guerra e la sua preparazione.
La scelta da fare non è quella delle armi che puntano all’occhio per occhio, e tutto il mondo diventerà cieco, ma quella del ripudio della guerra stessa e degli strumenti che la rendono sempre più insensata e insostenibile. Gli obiettori di coscienza sono una piccola luce di speranza nell’oceano delle tenebre che ci circonda.
È la proposta concreta che abbiamo lanciato con la Campagna Obiezione alla guerra a sostegno degli obiettori di coscienza, disertori e renitenti alla leva di Russia, Bielorussia, Ucraina, Israele e Palestina. Sosteniamo le spese legali per i processi, o l’assistenza in carcere, o il mantenimento di coloro che fuggono dal proprio paese e vanno in esilio. La richiesta politica che facciamo alle istituzioni europee è riconoscere lo status di rifugiati politici ai ragazzi dei paesi in guerra che non vogliono imbracciare le armi ma non viene riconosciuto loro questo diritto umano fondamentale nei paesi di origine.
I nonviolenti russi e ucraini sono le uniche voci delle due parti che stanno dialogando tra di loro, che creano un ponte su cui può transitare la pace, grazie al coraggio e all’impegno di chi a Kiev e Mosca, rischiando di persona, lavora per la crescita della nonviolenza organizzata.
L’imminente ingresso dell’Italia nella Grande Guerra viene commentato da Matteotti su “La lotta” in un fondo del 21 maggio 1915, intitolato L’ultima vergogna. Nell’articolo emerge un affresco fedele dell’Italia dell’epoca, che non appare così tanto dissimile dalla situazione di imperante demagogia, di esaltata retorica patriottica, di forviante populismo nazionalista, in cui si trovano i pacifisti al giorno d’oggi. La delusione, però, non lascia certo il campo allo sconforto, poiché anche durante il conflitto la posizione di Matteotti non cambia, sostenendo la sua aperta condanna nei confronti della guerra, posizione, questa, che lo porterà a scontare un lungo periodo di confino fino al marzo del 1919.
Se penso al sacrificio di uomini come Claudio Baglietto, Josef Mayr-Nusser, Pietro Pinna e Giuseppe Gozzini che, in diversi momenti dell’Italia novecentesca, hanno lottato affinché si giungesse alla legge 772 del 1972, e lo metto in correlazione alle esternazioni del ministro Salvini, del senatore Bergesio o dell’onorevole Monica Ciaburro -che sventolano lo stendardo del ripristino del servizio militare, giustificandolo con l’idea che il saper obbedire sia un valore ormai smarrito nelle nuove generazioni- un profondo senso di avvilimento mi assale. Così facendo quella straordinaria pagina di impegno civile non sarebbe di colpo sgretolata? Non sarebbe nuovamente scalfito quel primato della coscienza, unito ad una prassi nonviolenta, che pone al centro l’autonomia di ogni individuo?
L’obiezione di coscienza, il rifiuto di uccidere, di imbracciare le armi, e di svolgere il servizio militare obbligatorio, è un diritto umano fondamentale riconosciuto dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, dai principi fondativi dell’Unione Europea e accolto nella nostra legislazione, in sintonia con quanto stabilito dalla Costituzione, che ripudia la guerra e affida il sacro dovere di difendere la patria ai cittadini (che possono farlo con le forme della difesa nonviolenta).
Un frutto positivo dell’obiezione di coscienza, nel nostro paese, è rappresentato dall’istituzione del Servizio Civile Universale e da diverse sentenze della Corte Costituzionale che riconosce in esso un modo per ottemperare al dovere costituzionale di difesa della patria (art. 52) alla luce del ripudio della guerra (art. 11). Dal 1972 ad oggi (approvazione delle Legge che riconosce l’obiezione al servizio militare), sono milioni i ragazzi (e oggi anche le ragazze) che hanno scelto di svolgere un servizio civile. Da quando, nel 2004, è stata sospesa le leva obbligatoria, sono circa centomila i giovani che ogni hanno manifestano volontariamente la disponibilità a partecipare ad un servizio non armato per la patria, a dimostrazione di quanto ideologica e lontana dalla realtà sia la posizione di chi tifa per il ripristino della naja che farebbe bene alle smidollate nuove generazioni.
Purtroppo con i venti di guerra che soffiano in tutta Europa, dalla Francia alla Germania, dalla Polonia all’Estonia, siamo in una fase di paura, di riarmo, e si alzano le voci per una mobilitazione generale, e dunque per il ripristino della coscrizione militare, per preparare le riserve a fianco degli eserciti professionali.
È una spirale di follia, una parabola discendente verso l’inferno, che noi non possiamo accettare, e fedeli al principio base di obiezione di coscienza, il modo più coerente per dire NO alla guerra, con il Movimento Nonviolento abbiamo predisposto una Dichiarazione di Obiezione alla guerra che proponiamo di sottoscrivere a tutte le persone di buona volontà (da inviare ai Presidenti della Repubblica e del Consiglio e al Capo di Stato Maggiore)[3].
Conclusa la Grande Guerra, Matteotti sottolinea l’esorbitante costo del conflitto che i cittadini devono sostenere, la sua iniquità e l’insostenibilità delle condizioni imposte alla Germania per la rifusione dei danni.
La risposta a questa situazione, l’antidoto a nuovi conflitti, per il politico socialista, passava attraverso l’unità degli Stati europei e la formazione di “una vera Lega della nazioni, e più immediatamente degli Stati Uniti d’Europa”, affinché si sostituissero “alla frammentazione nazionalista fatta di infiniti piccoli stati turbolenti e rivali”.
Nella visione di Matteotti appare lo schema della pace attraverso il diritto che, chiaramente, non elimina la guerra, bensì la regola. Per un obiettore di coscienza, per chi avversa la guerra, intesa come barbarie antiumana, tale modello può essere accolto? Ed in caso affermativo come può essere intergrato nell’ottica della nonviolenza?
Gli “Stati Uniti d’Europa” erano il sogno di Altiero Spinelli, Ernesto Rossi e Eugenio Colorni che nel 1941, in piena guerra, mettevano le basi per un’Europa di pace. Oggi quella stessa Europa è sfigurata nel volto di chi l’aveva immaginata a Ventotene come costruttrice di pace e tesa a superare ogni confine ed unire i popoli in quella di oggi basata sul riarmo, la guerra, la costruzione di nuovi muri e l’esaltazione dei nazionalismi. L’Europa che stiamo conoscendo è l’Europa degli egoismi, dei campanili, della paura. L’errore madornale è stato quello di costruire l’unità economica (l’euro) prima dell’unità politica (cooperazione e pace, sicurezza, difesa). L’allargamento ad est senza una politica comune di difesa (per fare dell’Europa una potenza di pace, cuscinetto tra gli Stati Uniti e la Federazione Russa) che ridiscutesse l’appartenenza alla Nato, ha provocato gli squilibri che ora rischiamo di pagare molto duramente.
La guerra è in antitesi con il Diritto internazionale, che regola i rapporti tra stati in base alla diplomazia, alle trattative, e in caso di crisi si affida agli organismi superiori come l’ONU.
Quando scoppia la guerra, non c’è diritto che tenga, tant’è che per correre ai ripari, in base alle recenti esperienze storiche, le istituzioni hanno prodotto la Corte Internazionale di Giustizia (ONU, che regola il Diritto internazionale tra gli Stati) e la Corte penale internazionale (chiamata a giudicare persone accusate di crimini di guerra).
La strada del Diritto internazionale va certamente perseguita, anche se molto lunga. Ma va percorsa fino in fonda. Ben sapendo, però, che il Diritto internazionale da solo non basta.
Come ha scritto Alexander Langer: “Una necessità si erge pertanto imperiosa su tutte le altre: bandire ogni forma di violenza, reagire con la massima decisione ogni volta che si affacci il germe della violenza etnica, che – se tollerato – rischia di innescare spirali davvero devastanti e incontrollabili. Ed anche in questo caso non bastano leggi o polizie, ma occorre una decisa repulsa sociale e morale, con radici forti: un convinto e convincente no alla violenza”.
[1] Aldo Capitini tornerà sul politico socialista ancora sulla rivista “Comunità” del 4 luglio 1946, in un articolo intitolato appunto “Giacomo Matteotti”.
[2] P. Pinna, Le tecniche della nonviolenza non solo metodo ma anche fondamenti e finalità, in “Azione Nonviolenta, luglio-agosto 2017, Movimento Nonviolento, Verona 2017, p. 13
[3] Qui è possibile leggere il testo: https://www.azionenonviolenta.it/wp-content/uploads/2022/03/Dichiarazione-di-Obiezione-di-Coscienza-MN.pdf