Nel nostro paese che invecchia, solo nella ridotta minoranza che arriva da altri Paesi il 20% ha meno di 18 anni. Ciò nonostante l’Italia si guarda bene dall’accogliere chi scappa da qualsiasi guerra (oltre quella tra Russia e Ucraina), dalla povertà o da condizioni climatiche tali da mettere a rischio la stessa sopravvivenza.
A meno di una rinegoziazione il 2 novembre – scherzi del destino, proprio il Giorno dei Morti – scatta automaticamente il rinnovo triennale del Memorandum Italia-Libia con cui l’Italia si impegna a fornire denaro, motovedette e formazione, la Libia a tenere sotto controllo il flusso di migranti verso le nostre coste. Per scongiurarlo, il 26 ottobre scorso in Piazza Esquilino a Roma si è tenuta una manifestazione nazionale sulla base di un appello firmato da 40 organizzazioni
Il Memorandum Italia-Libia è stato sottoscritto per la prima volta il 2 febbraio 2017 dal governo Gentiloni e confermato da tutti i successivi. Il nostro partner non manca di ricordarcelo. Così Nello Scavo su “Avvenire” del 27 ottobre: “A meno di una settimana dal rinnovo del Memorandum d’intesa tra Italia e Libia, le cosche del Paese nordafricano, ampiamente rappresentate a ogni livello delle istituzioni, mandano un messaggio al nuovo governo italiano, e a colpi di barconi e vite perdute ribadiscono chi è che comanda nel Mediterraneo”.
Le condizioni con cui tutto questo avviene sono ben note e documentate. Si moltiplicano ormai le testimonianze di torture, stupri, uccisioni, lavori forzati, non di rado narrate da donne e da persone minorenni.
Sulla situazione dei migranti in Libia, nel giugno scorso Medici Senza Frontiere (MSF) ha pubblicato il report “Out of Libya”: “Sia dentro sia fuori dai centri di detenzione, i medici di MSF incontrano migranti vittime o a immediato rischio di tratta, tortura, abuso sessuale, estorsione e, in generale, violenza. Privati dalla possibilità di vivere sicuri in Libia, l’unica cosa che possono fare è cercare di mettersi in salvo uscendo dal paese”.
Provano a farlo ritornando via terra nei luoghi di provenienza, spesso confinanti, ma sanno che nel tragitto si riproporranno gli stessi pericoli come hanno sperimentato nel viaggio di andata, oppure via mare con imbarcazioni di fortuna e con la forte probabilità di annegare, o di essere riportati in Libia. Ci pensa la Guardia costiera libica, cui non di rado si aggregano e si mescolano le milizie, mentre per le navi delle ong è sempre più difficile dare soccorso, come raccolto dall’Espresso del 27 ottobre scorso.
La Libia non è un porto sicuro, condizione che di per sé dovrebbe escludere la possibilità di rimpatrio secondo il diritto internazionale, dunque l’illegalità è costante. Scrive Amnesty International: “Negli ultimi cinque anni sono state oltre 85.000 le persone intercettate in mare e riportate in Libia: uomini, donne e bambini andati incontro alla detenzione arbitraria, alla tortura, a trattamenti crudeli, inumani e degradanti, agli stupri e alle violenze sessuali, ai lavori forzati e alle uccisioni illegali”.
È la Libia a farlo, l’Italia se ne lava le mani, ma la situazione è arcinota. “Vita”, 29 ottobre scorso: “Il Rappresentante Speciale per la Libia del Segretario Generale dell’ONU, Abdoulaye Bathily, parlando davanti al Consiglio di Sicurezza ha ribadito, dopo una visita in Libia, che «le violazioni contro migranti e richiedenti asilo continuano nell’impunità. La detenzione arbitraria continua come pratica comune». Il procuratore capo della Corte Internazionale dell’Aia Karim Khan, nei mesi scorsi ha parlato più volte di crimini contro l’umanità, compiuti in Libia da soggetti che si muovono tra istituzioni governative e milizie che controllano il territorio”.
Ci sono elementi precisi su cui sarebbe doveroso contrattare, lo spiega bene Nello Scavo nell’articolo citato. “Fino ad ora non sono mai stati resi pubblici i protocolli attuativi degli 8 articoli del memorandum. Già tre anni fa le parti si impegnavano al «superamento» dei «centri di accoglienza», quei disumani luoghi di detenzione che Papa Francesco ha più volte definito «lager libici». Mai si parla di «tortura», «abusi», «stupri», «riduzione in schiavitù», «vendita di migranti». Lessico invece adoperato in oltre 20 dossier delle Nazioni Unite e dal segretario generale dell’Onu Antonio Guterres, che più volte ha accusato le autorità libiche di essere direttamente coinvolte nei traffici più esecrabili. Fino ad ora dalla Libia si sono presi gioco dell’Italia, che in verità ha sempre lasciato fare. Nel Memorandum si chiedeva già anni fa «il pieno e incondizionato accesso agli operatori umanitari, che potranno rafforzare l’attività di assistenza umanitaria a favore dei migranti e delle comunità ospitanti». Mai questi permessi sono stati accordati e mai dall’Italia e da Bruxelles si è deciso di interrompere i finanziamenti alle autorità libiche, che hanno continuato a violare i patti. Unico passo avanti, grazie all’insistenza della Farnesina, una più rapida concessione dei visti agli operatori internazionali delle Nazioni Unite, a cui Tripoli concedeva l’ingresso del Paese con il contagocce. Tuttavia i sopralluoghi indipendenti ai campi di prigionia restano impossibili e le uniche visite autorizzate vanno programmate con largo anticipo e i movimenti degli operatori umanitari ammessi devono seguire esclusivamente le indicazioni delle autorità libiche”.
Viene spontaneo pensare alle visite della Croce Rossa nei lager nazisti, al modo in cui venivano preparate e pilotate. Eppure sapremmo fare di meglio, se solo lo volessimo. Come commenta Save the Children: “la guerra in Ucraina ha dimostrato che in Europa un’altra accoglienza è possibile, ma ha anche mostrato la ferocia di un doppio standard per chi arriva dal Mediterraneo”.