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Michele, 1 anno, accoltellato dal babbo. Parole, azioni, scelte possibili

DiElena Buccoliero

Set 19, 2018

Che per sua natura è “improvviso e incontrollato”, recita l’ottimo e comodissimo dizionario Treccani online, e nella nostra testa richiama anche il concetto di imprevedibilità. Se un fulmine si abbatte su un faggio non è colpa del cielo. Se un uomo cerca di sterminare la famiglia, ovvero uccide il figlio di un anno, ferisce la compagna e tenta – fermato dalla compagna – di abbattersi sulla bimba di 7 anni ma lo fa in preda a un raptus, dopotutto non è neppure colpa sua.

Ci dicono che avevano precedenti penali, lui e pure la compagna, e uno pensa “una coppia di delinquenti” – fa stare bene un pensiero così, due criminali, chissà chi erano, sono già un po’ meno “dei nostri”. Poi salta fuori che i precedenti erano per truffa informatica, nulla a che vedere con la violenza. Già che c’erano potevano dirci se pagano le tasse, se parcheggiano in doppia fila, se hanno l’alluce valgo.

Risulta che tutto è accaduto in una lite. Mettiamoci d’accordo: una lite sta a un accoltellamento come un raffreddore sta a un tumore al polmone all’ultimo stadio. Ma dentro a questo andirivieni di significati – perché invece litigare capita in tutte le coppie e questo ce li riavvicina un po’ – l’implicito è che non è colpa di nessuno (o di tutti e due: avrà pur fatto qualcosa, anche lei, per innervosirlo a quel punto?), nella rabbia come si fa a controllare le proprie azioni?

Questo è un segnale d’allarme che da qualche anno mi si accende con una certa frequenza, davanti alla cronaca come a tu per tu con la gente. L’idea che si possa chiedere a una persona la capacità di controllare le proprie reazioni sembra smarrita. “Eh, in atto di rabbia, come si fa”. La rabbia è cieca, quando è sbollita si dice “non c’ho più visto”. Emozioni e cervello procedono scollegati e sembra accettabile che sia così.

Beh, ma lui era seguito dal centro di salute mentale! Un punto decisivo a favore del raptus, quando una persona atterra in psichiatria ci si può aspettare di tutto. Poi vai a sapere, poteva essere in cura per depressione o schizofrenia, nevrosi o disturbo antisociale. Se era pericoloso, perché i bambini potevano vivere con lui? Se non era pericoloso, cosa ci cambia il fatto che fosse in cura?

Non che uno prima di aprire bocca debba avere sotto mano il DSM che è poi il manuale delle malattie mentali, ci mancherebbe, ma l’idea che una presa in carico psichiatrica ampli i confini dell’ammissibile e apra le porte ai peggio orrori aggiunge informazioni sul nostro tempo. Perché poi nel non saper più fare le differenze, nel non leggere con competenza la realtà si annida un altro rischio ahimè molto attuale. Piuttosto che imparare a litigare si prende il porto d’armi, anziché conoscere chi è diverso dalla maggioranza si alzano muri, e al posto di interrogarsi sulla malattia mentale si vorranno ripristinare i manicomi. Tutto molto comodo e semplice, quindi alla moda. Tutto molto desolante.

Continuo a cercare notizie sulla famiglia Patriarchi e arrivo facilmente ai contorni consueti. In quella casa le liti erano continue, i vicini di casa le sentivano ma non si sarebbero mai aspettati un finale così tragico – e d’altra parte chi può aspettarselo, le liti ci sono in tutte le famiglie, cioè: non hanno niente da rimproverarsi per non avere chiamato il 113, tra moglie e marito non mettere il dito. A quali temperature si arrivi, a quali toni di voce, a quali frammenti di orrore restino sul pavimento e trapassino i muri quando in un crescendo un uomo insegue la compagna e i bambini con un coltello in mano, lei si rifugia coi piccoli sul balcone ma lui li segue e comincia a menare fendenti a partire dal più indifeso è difficile immaginare.

E comunque i Carabinieri erano intervenuti più volte, la cronaca ci dice anche questo. Alla faccia del raptus e dell’imprevedibilità. Annalisa, la mamma, aveva sporto denuncia qualche tempo fa e poi l’aveva ritirata, “la famiglia non era seguita dai Servizi Sociali” aggiunge il Sindaco, si era rivolta ai loro uffici solo per richiedere un aiuto economico. E io penso: perché non erano seguiti dai servizi? Chiedevano solo denaro, d’accordo, ma le liti violenti c’erano già state con interventi dei carabinieri, perché i servizi non erano stati avvisati?

Come è triste e banale tutta questa storia. E simile a centinaia di altre. Forse evitabile, certamente punteggiata di occasioni piccole o grandi nelle quali poteva succedere qualcosa di diverso. Lo dico ricordando la tragedia di Michele, di Annalisa e della bambina, illesa solo nel corpo, ma ricordando che per puro caso Annalisa è ferita non mortalmente, in tanti fatti analoghi non c’è stato scampo neppure per le donne, o proprio per loro. Niccolò Patriarchi li avrebbe ammazzati tutti e tre se lei non avesse telefonato ai familiari e questi non fossero arrivati in tempo a fermare la scena e chiamare le forze dell’ordine.

Proprio avendo a mente la banalità, la reiterazione, alcune cose ancora vorrei provare a dire.

Alle forze dell’ordine, che quando intervengono per una violenza familiare e in quella casa sono presenti persone minorenni il problema non è solo tra lui e lei. Riguarda anche i figli. E mentre lui e lei si barcamenano tra lasciarsi e restare, sarà meglio che qualcuno dia un occhio a come stanno i bambini, il che significa: è necessario avvisare l’autorità giudiziaria, più precisamente la procura per i minorenni, inviando le relazioni di servizio e tutto quello che si ha a disposizione. Lo so che forse comunque le procedure, i tempi non avrebbero evitato il peggio… ma forse sì. Lui sarebbe stato allontanato, o la mamma sarebbe stata messa in protezione insieme ai figli, o qualche ficcanaso di educatore psicologo assistente sociale si sarebbe affacciato a capire come stavano le cose. Non abbiamo leggi perfette né siamo capaci di previsioni esatte ma quando i fatti emergono qualcosa si può almeno tentare.

Alle donne, che se sono mamme quando scelgono di ritirare la denuncia questa scelta non riguarda soltanto loro, anche i bambini. La normalizzazione del pericolo e del dolore non aiuta loro e neppure i bambini. Le violenze che restano possibili possono abbattersi indifferentemente sulle une e sugli altri. Fare scudo ai figli con il proprio corpo è un eroismo straordinario e istintivo, prendere le distanze da un partner violento è una scelta banalmente ragionevole ma può essere salvifica.

E a lui?

Lui è in stato di shock, ci dice l’avvocato difensore. Mi pare di riconoscere implicito un “poveretto, chissà quanto soffre”. Espressione che si addice a chi è stato posseduto dal demonio – il raptus, la malattia mentale – e si accascia spossato, usato da una violenza non sua, scoprendo a posteriori di essere stato la mano che ha ucciso il figlio.

Non lo conosco. Ne ho conosciuti altri come lui, in carcere dopo aver ammazzato i familiari.

Non c’è dubbio, soffrirà. È umano, non esistono i mostri. Soffrirà appena si renderà conto di tutto quello che ha fatto, e a soffrire per questo non c’è proprio niente di male. Spero si accorga che quel gesto è stato suo e non del demonio. Che saper venire a patti con la propria rabbia è una sua precisa responsabilità, sua e di ciascuno. Lo auguro a tutti i violenti. Non per castigo ma per restare, per ritornare, umani.

Di Elena Buccoliero

Faccio parte del Movimento Nonviolento dalla fine degli anni Novanta e collaboro con la rivista Azione nonviolenta. La mia formazione sta tra la sociologia e la psicologia. Mi occupo da molti anni di bullismo scolastico, di violenza intrafamiliare e più in generale di diritti e tutela dei minori. Su questi temi svolgo attività di formazione, ricerca, divulgazione. Passione e professione sono strettamente intrecciate nell'ascoltare e raccontare storie. Sui temi che frequento maggiormente preparo racconti, fumetti o video didattici per i ragazzi, laboratori narrativi e letture teatrali per gli adulti. Ho prestato servizio come giudice onorario presso il Tribunale per i Minorenni di Bologna dal 2008 al 2019 e come direttrice della Fondazione emiliano-romagnola per le vittime dei reati dal 2014 al 2021. Svolgo una borsa di ricerca presso l’Università di Ferrara sulla storia del Movimento Nonviolento e collaboro come docente a contratto con l’Università di Parma, sulla violenza di genere e sulla gestione nonviolenta dei conflitti.

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