A Siena, nei pressi dell’autostrada, un paio di settimane fa c’era una rotonda praticamente invasa. Ragazzi e ragazze che tenevano in mano cartelli con le loro destinazioni: Roma, Firenze, Venezia. Il cartello di uno di loro recitava: Ludwigshafen-am-Rhein. “Buona fortuna!” ho pensato.
Sull’autostrada verso Bologna, pochi giorni fa, ne ho incontrati due, e solo giovedì scorso, qui a Ferrara, alla rotonda di San Giorgio, un ragazza e una ragazza mostravano un cartone con la scritta: Padova.
Nei primi anni settanta, a proposito dell’autostop, i ragazzi grandi raccontavano a noi bambini storie che non si dimenticano.
Amsterdam in tre giorni, dormendo lungo le strade.
Parigi–Berlino–Praga–Budapest passando da una cabina di camion all’altra.
Viaggi giovanili che permettevano di conoscere persone sempre nuove (ragazze, perlopiù), passati discutendo dei massimi sistemi oppure suonando la chitarra (la colonna sonora di “Easy Rider”, perlopiù).
Storie che forse, oggi, non passerebbero un “fact-checking” appena appena strutturato, ma che, insomma, avevano una loro epica.
Poi – lo sappiamo tutti – i tempi sono cambiati e sono arrivati il riflusso, la santificazione dell’egoismo e dell’aggressività e, di peggioramento in peggioramento, l’idolatria dell’individuo in cui viviamo immersi oggi.
Caricare un autostoppista è un gesto molto bello: significa riconoscere nell’altro un possibile compagno di strada (un gesto quasi inconcepibile, abituati come siamo a cercare nemici ovunque), fargli spazio nella nostra vita (o almeno sui sedili della nostra auto), fare un pezzo di strada assieme.
Non so se il ritorno degli autostoppisti sia un fenomeno tale da interessare i sociologi.
Quello che so per certo è che tutti abbiamo bisogno che qualcuno ci riconosca come compagni di strada, ci prenda con lui, faccia un pezzo di strada assieme a noi.
Per me, la felicità è lì.