Dovrebbe essere uno studio severissimo:
- Dimmi “Il suonatore Jones”…
- Non lo so.
- Quattro. Torna a posto.
- Spiegami perché “Dietro ogni blasfemo c’è un giardino incantato”.
- Non ho potuto studiare…
- È già la seconda volta. Bocciato.
E via così…
Tutto questo per dire che, anche se non se ne parla più tanto, c’è un bambino, si chiama Charlie, per il quale qualcuno – un giudice! – ha deciso che la sua vita non ha valore.
O, più precisamente, una sentenza dell’11 aprile scorso decreta che: “L’attuale qualità di vita di Charlie non merita di essere sostenuta” (…the quality of life that Charlie has at present is not worth sustaining).
Ora: io non capisco nulla di medicina, nulla di diritto e, soprattutto, ho un enorme rispetto per i giudici che devono prendere decisioni di questo tipo. In tutta questa faccenda, essendo io un padre, gli unici che mi pare, empaticamente, di capire un po’ sono i genitori di Charlie.
Tuttavia non riesco a mandar giù il fatto che una sentenza, che a rigor di logica, dovrebbe dire “Questo è legale, e quest’altro no”, affermi invece che “una vita non vale la pena di essere sostenuta”.
Questa – e temo che nessuno mi convincerà del contrario – non è un’affermazione legale. È un assunto ideologico.
E le ideologie fanno paura.
Perché chi ci garantisce che qualche Suprema Corte, già domani, non stabilisca che le vite dei disabili, dei vecchi, degli stomizzati sono “not worth sustaining”?
Le ideologie fanno paura, e l’unico antidoto contro le ideologie è il principio che la vita è un assoluto, qualcosa di cui nessuno ha il diritto di calcolare il valore.
La vita è un assoluto.
Non fosse altro perché, come dice il giudice di de André, nessuno di noi, anche quando è “arbitro in terra del bene e del male” può conoscere davvero “la statura di Dio”.