Lontano da noi: l’ennesimo ragazzo di colore ucciso. Aveva in mano un cellulare che, forse, è stato “scambiato” per un arma.
Lontano da noi (non così tanto): una donna incinta viene fatta scendere a strattoni dal treno. Non ha, o non vuole mostrare, i documenti.
Vicino a noi (tanto): nella nostra città viene affidata una sede a un’associazione che da decenni si impegna perché, attraverso il lavoro, il mondo diventi un luogo più solidale e connesso (creando così – e non è un fatto secondario – opportunità di volontariato e crescita umana per i nostri figli).
L’affidamento di questa sede diventa un’occasione non per “cavalcare” le paure delle persone ma – e non ci sfugga questo peggioramento – per suscitarle.
Che cos’è, mi chiedo, questa incredibile sproporzione tra problemi reali (la violenza armata, le migrazioni incontrollabili, la vita nei quartieri) e gesti tanto violenti quanto inutili?
Vorrei, sinceramente, capire: cosa scatta nella tua testa quando credi poter cambiare la realtà uccidendo un ragazzo, maltrattando una donna nel periodo più delicato della sua vita, mettendo i tuoi concittadini uno contro l’altro?
Domande retoriche.
Tutto questo ha un nome, e si chiama fascismo.
E questo fascismo dilagato (e non più – lo si tenga per certo – “dilagante”) per me è incomprensibile.
Non ci sta nella mia testa.
Mi mancano le parole per dare un nome a quei poliziotti americani e francesi o a quegli uomini della mia città, che pure sono esseri umani, non importa quanto grandi siano le assurdità che commettono.
Esseri umani come me, ma per definirli mi sono rimaste solo le parole di Eliot:
Siamo gli uomini vuoti
Siamo gli uomini impagliati
Le nostre voci secche, quando noi
Insieme mormoriamo
Sono quiete e senza senso
Come vento nell’erba rinsecchita
O come zampe di topo sopra i vetri infranti
Nella nostra arida cantina.