In questi giorni in Trentino i nostri media stanno dando spazio a iniziative volte a onorare la memoria dei caduti trentini nelle guerre. E’ successo sia in occasione dell’apertura ufficiale del Museo degli Alpini sul Doss Trento che durante la tappa del passaggio della Staffetta Cremisi a Trento per il centenario della traslazione della salma del Milite ignoto da Aquileia a Roma. Nei prossimi giorni poi anche il Consiglio Comunale di Trento sarà chiamato ad esprimersi per una delibera che, rifacendosi ad un’iniziativa di carattere nazionale, vuole conferire la cittadinanza onoraria ai militi ignoti di tutte le nazionalità.
Al di là della retorica militarista che spesso accompagna queste iniziative credo sia giusto onorare il ricordo di chi è morto durante le guerre passate e a maggior ragione sia giusto ricordare i militi ignoti, persone che non hanno avuto nemmeno la possibilità di essere seppellite con il loro nome e cognome e un posto dove essere piante dai loro cari. Molto interessante la volontà del Comune di Trento di onorare i militi ignoti di tutte le nazionalità senza invece fermarsi ai soli italiani. Uomini morti spesso senza un perché, troppo spesso ubbidendo a ordini assurdi impartiti da generali che li vedevano solo come numeri di cui disporre liberamente e non come esseri umani. Onorare queste persone senza nome e simbolo dei milioni di ragazzi, un’intera generazione, che persero la vita in battaglia.
La nostra Repubblica, sin dalla sua fondazione, ha voluto allontanarsi dall’orrore della guerra. L’Italia, ce lo ricorda l’articolo 11 della Costituzione, ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali.
Ecco che allora per onorare a pieno la nostra Costituzione e in occasione dei cento anni del “milite ignoto”, simbolo di pace e fratellanza universale, sarebbe giusto dare onore e riabilitare finalmente anche altre figure vittime della guerra. Mi riferisco alle migliaia di militari disertori spesso passati per le armi sul posto, senza processi. Giustiziati con una violenza ingiustificata e sempre accompagnata da diffamazione, vergogna, umiliazione. Umiliazione e disonore in cui veniva a cadere anche la stessa famiglia di questi ragazzi.
Giovani passati alla storia come codardi e vili che si rifiutarono di battersi e di morire per niente, che vollero mettere fine ai massacri, rifiutarono di uccidere altri esseri umani con differenti uniformi; persone che cercarono di fraternizzare oltre le trincee.
Da anni gira un appello al Presidente della Repubblica ”per la riabilitazione storica e giuridica dei soldati italiani fucilati per disobbedienza o decimati nel periodo 1915-18”.
Nell’appello si ricorda come su di un esercito italiano di 4 milioni e 200 mila soldati le denunce all’autorità giudiziarie militare dalla dichiarazione di guerra (24 maggio 1915) fino alla “vittoria” (4 novembre 1918) furono complessivamente 870 mila, delle quali 470 mila per mancata alla chiamata (di cui 370 mila contro emigrati che non erano rientrati) e 400 mila per diserzione, procurata infermità, disobbedienza aggravata, ammutinamento; ma di molte fucilazioni sul campo, effettuate soprattutto dopo Caporetto e eseguite, nella maggior parte dei casi, senza un regolare processo, non sono rimaste notizie certe, così come delle “decimazioni” al fronte di interi reparti volute dai comandanti per “ristabilire la disciplina”.
Il tempo è maturo per compiere questo atto di giustizia storica. Rendere l’onore e restituire dignità ai tanti giovani disertori, renitenti, obiettori, che rifiutarono il massacro cercando di salvare la vita. Loro avevano ragione. I generali avevano torto.
La riabilitazione dei disertori avrà un senso soprattutto per noi. Onorare i fuggiaschi delle guerre di ieri e sostenere i fuggiaschi dalle guerre di oggi di tutto il mondo contribuirà forse finalmente a farci capire l’impellente necessità di abbandonare definitivamente l’orrore della guerra, avventura senza ritorno.
In questa fase, la retorica militarista assume e riassume anche altre forme: riproporre la leva militare come strumento formativo per i nostri giovani è un altro – l’ennesimo – sintomo di una società che fatica a dare valore non solo all’opposizione ad ogni violenza ma alla disobbedienza come virtù, espressione di un pensiero critico, insieme personale e collettivo.
Rifiutarsi di combattere una guerra è stato considerato per anni un atto vile e codardo dalla nostra società: è ora di cambiare, di riconoscere e dare dignità al valore educativo della disobbedienza.
Cominciamo da Trento.
Massimiliano Pilati