L’output operativo che l’Esercito esprime all’estero con i propri uomini e donne rappresenta uno stimolo alla stabilità e allo sviluppo, condizioni necessarie per riportare la speranza nelle aree del globo particolarmente martoriate. Un impegno a tutto campo nell’ambito dell’ONU, della NATO e dell’UE, condotto nelle aree di maggior interesse strategico per la Nazione”.
C’è un elenco di operazioni concluse, quasi tutte dai nomi suggestivi: 3 in Afghanistan e Albania, 2 in Bosnia, Macedonia, Iraq, Libano, Mozambico, Pakistan e Repubblica centro africana, 1 in Ciad, Georgia, Haiti, Kurdistan, Marocco, Medio Oriente, Namibia, India, Ruanda, Somalia, Timor Est.
Sono tutte aree di evidente interesse strategico della Nazione. La crescita del nostro Paese ne è stata senza dubbio stimolata. Non so come saremmo messi se non ci fossero state queste missioni. E nei Paesi dove si sono svolti gli interventi sono evidenti gli effetti in termini di speranza, stabilità e sviluppo.
Adesso, sempre dal sito, risultano in corso nuove missioni, Due sono con la NATO. Quella in Kosovo, KFOR – Joint Enterprise non si può dire proprio nuova. Ha avuto inizio sabato 12 giugno 1999. Una è in Afghanistan, Resolute Support, da giovedì 1 gennaio 2015, facendo seguito alle tre già concluse. Un’altra è con l’ONU, in Libano, due ce ne sono già state e non c’è due senza tre. È l’operazione Leonte e non voglio togliere il piacere di scoprire perché si chiama così. È iniziata il 1° novembre 2006. Due sono con l’Unione Europea In Somalia, dal 7 aprile 2010 e in Mali dal 17 gennaio 2013. Sono tutte missioni difficili e complesse. Neppure appaiono semplici altre operazioni: in Iraq, contro l’Isis; di nuovo in Libano, in collaborazione col governo libanese, e in Libia, con la Missione militare italiana in Libia, così ribattezzata la missione Cirene del 2011 dalla quale ha ereditato compiti ed efficacia; sempre in Libia, dal settembre del 2016 c’è un ospedale da campo e l’operazione si chiama Ippocrate.
Resto convinto che, con tutta la buona volontà, l’impegno, la professionalità dei militari, costruire la pace non sia mestiere loro o addirittura loro esclusivo. C’è una proposta di legge di iniziativa popolare per un altro modello di difesa e di intervento. Parlamentari di diversi gruppi la sostengono, ma non si arriva a discutere e a deliberare. Sarebbe un buon inizio per una riflessione europea su questi temi, essenziali anche per affrontare alcune delle radici delle immigrazioni di massa che tanto ci preoccupano. Eppure il fallimento delle cd missioni di pace è sotto i nostri occhi. È stato sempre così.
La prima missione di pace, allora neppure queste parole venivano usate, voluta dal Consiglio di sicurezza dell’Onu, di fronte alla guerra civile esplosa nel Congo proclamato indipendente dal Belgio, non raggiunse alcuno degli obiettivi dichiarati. I più anziani ricorderanno il massacro dei 13 aviatori italiani a Kindu nel novembre del 1961, le sevizie che hanno preceduto l’uccisione, lo smembramento e la distruzione dei corpi, che sarebbero però stati ritrovati mesi dopo. Un bel libro di Amoreno Martellini, “Morire di pace. L’eccidio di Kindu nell’Italia del miracolo”, analizza quella vicenda, la difficoltà di accertare i fatti (“La menzogna è più forte della verità”, Sciascia), le posizioni contrapposte, l’uso che se ne è fatto… Molti elementi utilissimi a comprendere le “missioni di pace” nei loro fini, detti e non detti, nelle loro conseguenze, volute e non volute, vengono da questa lettura che raccomando.