E in internet ci vanno 3 italiani su 4; 9 su 10 hanno un cellulare, per 7 è uno smartphone. In rete ci vanno un po’ tutti. Praticamente tutti i giovani frequentano abitualmente la rete, contro un terzo dei vecchi, che non è detto siano meno creduloni. Spudorate bugie circolano anche fuori dalla rete, ovviamente, ma qui è più facile trovarne di ogni tipo, per ogni gusto e contribuire a diffonderle.
Due libri recenti possono aiutarci a comprenderne ragioni, diffusione e pericoli: “La Democrazia dei creduloni” di Gérald Bronner e “La congiura dei somari” di Roberto Buriani. Ci confermano che le bugie possono sì avere gambe corte, ma veloci e instancabili. Soccorrono, potenziate dalle tecnologia, il bisogno di credere, che non è solo, né principalmente italiano. Di nuovo c’è il dileggio di chi chiede una verifica attenta delle fonti e delle notizie, di chi non si insedia nella post-verità, o post-truth, nella lingua neopompeiana. Sono risalito a fonti precedenti e comunque estranee ai media attuali, a quando media si diceva così e non “midia”. È uno scritto redatto su sollecitazione di un amico.
Ancora mi stai alla verità…siamo oltre…
Penso dunque sono, credo dunque ho ragione, mi suggerisce un amico. Ma senza la credenza, assicura Gadamer, non vi sarebbe dubbio e – aggiungo io – per di più piatti e pentole starebbero sul pavimento. È che del credere e del non credere bisogna fare il giusto uso. Non è che chi non crede più a Dio non crede a nulla – scrive Chesterton – crede invece a tutto. È almeno un rischio che corre quanto il credulone. Diceva invece mio zio Rübes di Suzzara “Tö sia Rösina dis… ma l’è na söra l’ha cred a tüt”.
Ho conosciuto due credenti, uno attraverso gli scritti. “Per me Dio è la verità – scriveva – ma preferisco dire che la verità è Dio, così da essere assieme a tutti nel cercarla”. E ci teneva tanto da sostituire la bella parola ahimsa (nonviolenza) con satyagraha (la forza o la fermezza nella verità) alla quale la nonmenzogna aiuta ad avvicinarsi. Si chiamava Gandhi e ha intitolata la sua biografia “Storia dei miei esperimenti con la verità”. Oggi avrebbe avuto altro con cui confrontarsi. L’altro lo conosco di persona: ha indossato un saio, che gli sta benissimo. Dice semplicemente “an sa na vrità da ki a lì”. E questo mi aiuta a pensare.
Come Pilato, che lo ripeteva ogni volta che si lavava le mani, non sappiamo “Quid est veritas?”. E post veritas allora?. C’è una dea dal nome suggestivo, che ci potrebbe aiutare. È Postverta, dea della profezia, presiede ai parti complicati e spesso, allora, sfortunati. È la faccia trista della gemella siamese Prorsa, che conduce a buon termine il parto, canta ed è attiva e prudente. Non così Postverta – assieme a Prorsa forma la duplice dea Carmenta – ispira pessimamente le carmente, profetesse entusiaste, quasi carentes mentes, senza cervello cioè. Ora la sua influenza pare essersi estesa anche ai carmenti, operativi ovunque e carentes mentes del pari.
Il parto del lessema – suona meglio di “parola”- post-verità, tradotto da post-truth, ha avuto grande successo. Postverta presiedeva al parto podalico, qualche volta con successo, quando cioè il neonato si presentava all’uscita con le natiche e non colla testa. Il culto e la pratica della post-verità caratterizza invece chi, comunque nato, usa le natiche per credere e, e si fa per dire, per ragionare. Post veritas è dunque verità dal di dietro, come veritas post è verità in secondo piano.
Confidiamo che i fatti abbiano la testa dura e che, con i loro assidui ricercatori, possano aver ragione dei cultori e diffusori di post verità. Sono paranoici sociali, più contagiosi e pericolosi dei paranoici psichiatrici, perché capaci di coinvolgere altri nei loro deliri. Non sono simpatici come mastro Tanè, che negava essere gli americani andati sulla luna. “E come ci andavano addà?” diceva indicandola grande e lontana nel cielo di Rossano. All’obiezione che i russi allora li avrebbero smascherati, obiettava trionfante, unendo le due mani con gli indici tesi, “Su d’accorde”.