Lo porrebbe anche a voi, se aveste come me la ventura di guardare da vicino che cosa può essere la famiglia.
Prendiamo Maria e Giuseppe nella grotta col bambino, il bue e l’asinello. Un assistente sociale, un giudice minorile, un agente di polizia che li incontrasse oggi, vedendoli poveri e amorevoli, li porterebbe – giuro – li porterebbe in un alloggio per l’emergenza, gestito in genere da qualche associazione cattolica che difatti all’epoca non esisteva. Oppure accompagnerebbe Maria e il bambino in una comunità apposita (le più accolgono appunto madri e bambini, non anche i padri, il sistema è fatto così), cercando un’altra soluzione per Giuseppe e permettendogli di andare a trovare la famiglia, non essendoci problemi tra lui, la moglie e il neonato.
Ma che cosa avrebbe dovuto fare, invece, quel giudice, quell’assistente sociale, quell’agente di polizia, se avesse trovato Giuseppe ubriaco che picchiava Maria, come magari già in gravidanza (tante volte le botte cominciano in gravidanza), e si giustificava con quella sua paternità così fuori dagli schemi?
O se nella grotta ci fosse stato il bambino e basta, circondato da pecore e pastori, mentre i genitori si sollazzavano allegramente a un qualche veglione dei Magi?
Se la bottega di falegname si fosse rivelata una copertura per attività di spaccio e riciclaggio di denaro, e si fosse rinvenuta della cocaina nella culla del piccolo?
Se la riffa con le vesti del Nazzareno fosse avvenuta non sotto la croce ma subito, nell’infanzia, organizzata da mamma e papà, per sollevare a spese del bambino le magre finanze familiari?
Ricordiamoci di Gesù che a 12 anni dispensa i suoi insegnamenti ai dottori del tempio. I genitori lo cercano preoccupati, certo, l’avremmo fatto anche noi. Ma avrebbero potuto anche portarlo a casa a suon di botte, rinchiuderlo, frustarlo con il filo elettrico, impedirgli di andare a scuola e organizzargli un bel matrimonio forzato per vedere di raddrizzarlo. Che cosa avreste detto allora?
“Scherza coi fanti e lascia stare i santi”, diceva mia nonna ai comici della televisione convinta che potessero vederla proprio come lei vedeva loro, e sono sicura che oggi lo direbbe a me.
Hai ragione nonna, non volevo mancare di rispetto. È che non ne posso più.
La famiglia è un nido d’amore, sì, è quasi sempre vero. Però quasi. È anche il luogo dove più di ogni altro bambini vengono maltrattati, trascurati, abusati, sfruttati, prostituiti, costretti. Riusciamo a pensare che debbano essere tutelati? E che questo è un nostro problema, come società, ed esige ottime leggi (tutto è perfettibile, ma quelle le abbiamo), competenze adeguate, fiducia in chi le esercita, e massima riservatezza verso i bambini che non possono e non devono essere strumentalizzati per propri scopi dal leader di turno?
Non perché non si possano fare errori – non per nulla esistono mutamenti dentro a ciascun procedimento e, per le decisioni definitive, tre gradi di giudizio – ma questo è il sistema che più garantisce i piccoli, posto che, appunto, i maltrattamenti esistono, e anche gli abusi e tutto il resto. È uno sporco mestiere, qualcuno deve pur farlo. Bene, se possibile, cioè nell’interesse primario dei bambini e non degli adulti. L’urlo della folla non aiuta, anzi. Anche perché i minorenni dai politici non ci vanno e nemmeno dai giornalisti. I genitori sì.
Da un po’ di anni la politica e la stampa ci inzuppano il pane negli allontanamenti familiari. Vorrei dire: con che diritto? Ve la sentireste di contestare a un chirurgo la tecnica usata nell’asportare un tumore? Direste a un astronauta come doveva tenere la rotta? Chi vi dà il diritto di pensare che a decidere sulla sorte di un bambino sia capace chiunque, e soprattutto voi? Chi vi dà il permesso di prendere per oro colato tutto quello che dicono i parenti prossimi, senza pensare che nessuno – nessuno – vi dirà mai “sì l’ho maltrattato”, “sì l’ho abusato”, primo perché difficilmente lo riconosce secondo perché andrebbe incontro a una condanna penale?
Una di queste vicende è accaduta a Verona in questi giorni. Mi riconosco, parola per parola, nello scritto del nostro presidente Mao Valpiana a cui rinvio nel link che segue. Solo aggiungo che avrei preferito sapere di Verona arrabbiata e in prima linea per Farah – sappiamo più niente di lei? –, la ragazza veronese di origine pachistana costretta dai genitori a rientrare nel paese d’origine e ad abortire il figlio concepito con il ragazzo italiano che amava, per forzarla a sposare un connazionale. Era maggiorenne da poco, 19 anni. Purtroppo, sennò la giustizia minorile italiana l’avrebbe protetta. Ma voi, difensori dei diritti dei figli che ora affiggete cartelli alla finestra, per Farah voi c’eravate?
Leggi QUI l’articolo di Mao Valpiana
(vigna di Mauro Biani)