Tratto dall’articolo “No alla vittoria” scritto da Maurizio Ferrandi per salto.bz.
Per motivi che sono sin troppo facili da comprendere sono sempre giorni complicati e tesi, in Alto Adige, quelli nei quali cade l’anniversario della fine della Grande Guerra e quindi della vittoria italiana sull’Austria Ungheria ed infine dall’inizio della divisione in due del vecchio Tirolo. Per molti decenni una ricorrenza che larga parte della popolazione viveva con lo strazio per una ferita mai perennemente chiusa, era invece, per un’altra parte, giorno da festeggiare per una vittoria da ricordare e da esporre orgogliosamente come titolo fondamentale del proprio diritto di stare in questa terra.
Nel corso dei decenni, tuttavia, ci sono stati momenti nei quali il flusso degli avvenimenti storici ha creato particolari motivi di scontro e di tensione.
Uno di questi avvenne indubbiamente nel 1968, quando si trattò di celebrare il cinquantesimo anniversario del 4 novembre 1918. La cronaca registrò allora qualche fatto molto particolare che vale la pena, forse, di rievocare oggi a mezzo secolo di distanza.
Prima di esporre i fatti, però, sarà utile qualche noterella esplicativa su quel che avveniva, in quei tempi e in quelli precedenti, in provincia di Bolzano in occasione di quella ricorrenza. L’anniversario della fine vittoriosa del conflitto fu celebrato già a partire dal 1919. Due anni dopo, in quel giorno, vi fu la solenne traslazione al Vittoriano di Roma della salma del Milite Ignoto. La denominazione di Festa della Vittoria fu una delle prime decisioni prese da Benito Mussolini, pochi giorni dopo la Marcia su Roma. A Bolzano, durante il ventennio fascista, le cerimonie ebbero sempre una particolare solennità e, a partire dal 1928, trovarono la loro sede naturale a fronte dell’arco marmoreo costruito per volontà di Mussolini, intitolato a quella vittoria cui era dedicata anche la piazza circostante. Un rituale proseguito sino al 1942, interrotto ovviamente nel periodo dell’occupazione germanica, ma ripreso senza sostanziali variazioni dal 1945 in poi. Non vi erano più, ovviamente, le camice nere e i saluti romani, ma la celebrazione ripercorreva uno schema sempre uguale nel tempo. Alla presenza dei reparti militari in armi e delle massime autorità civili, venivano deposte le corone d’alloro alle erme che sotto l’arco piacentiniano ricordano Battisti,Filzi e Chiesa. Alle cerimonie ufficiali si aggiungevano poi quelle di partito con la destra missina, ovviamente, in primo piano.
Così avvenne anche il 4 novembre del 1968, lunedì, ma certo, come negli anni immediatamente precedenti, il clima in cui si svolgevano le celebrazioni era particolarmente teso e pesante. L’Alto Adige stava uscendo, ma questo ancora non poteva saperlo con precisione nessuno, da uno dei periodi più bui e difficili della sua storia. Dopo oltre dieci anni di trattativa era arrivato alle ultime battute il dialogo tra Roma, Bolzano e Vienna sul nuovo statuto di autonomia, il famoso “Pacchetto” che di lì a un anno sarebbe passato al vaglio di un tempestoso congresso SVP e che nel giro di altri due anni sarebbe divenuto legge costituzionale. Stavano soprattutto per cessare quegli attentati terroristici che, soprattutto nella seconda metà degli anni 60, avevano insanguinato la provincia con morti e feriti, in un clima di crescente terrore, generando una fortissima opera di repressione da parte delle forze di polizia.
L’Alto Adige, è bene ricordarselo, era una sorta di zona di guerra, occupata da una quantità incredibile di poliziotti, carabinieri, con le truppe dell’esercito a dar man forte in una sorveglianza capillare e con una presenza massiccia di uomini in divisa nei piccoli centri periferici come nelle città.
Le ricorrenze pubbliche erano, in questo clima, anche occasione dichiarata per far sentire la presenza dello Stato e della sua mano armata. Così Bolzano, assieme a Trieste, altra città simbolo di un confine conteso, era teatro quasi tutti gli anni, in occasione della festa della Repubblica, il 2 giugno, di una imponente parata militare. La celebrazione del 4 novembre replicava, sia pur in tono minore, lo stesso schema con un’esibizione di reparti in divisa che aveva lo scopo evidente di ribadire l’assoluta fermezza dell’Italia nel mantenere entro i suoi confini l’Alto Adige.
Così negli anni precedenti e così anche, a maggior ragione vista che cadeva un anniversario così importante come quello del mezzo secolo, in quel 1968, quando però a turbare quella che i cronisti definivano come la solenne gioiosità dell’evento arrivarono alcuni fastidiosi contestatori.
Anche qui converrà prendere le cose un po’ da lontano. Abbiamo già dato conto, in questo viaggio degli avvenimenti del 68 bolzanino, del formarsi progressivo, in quegli anni e in quei mesi, di un gruppo politico che si raccoglieva attorno al mensile Die Brücke, fondato da Siegfried Stuffer e Alexander Langer, portavoce di un dissenso sempre più netto nei confronti della politica ufficiale, dei partiti di maggioranza, del progetto di un’autonomia basata sulla divisione e sulla contrapposizione etnica, ma anche di una contestazione radicale nei confronti delle istituzioni come la scuola, la Chiesa e non ultimo l’esercito.
A questo gruppo si erano aggiunti progressivamente diversi esponenti del dissenso cattolico, che aveva nell’antimilitarismo, una delle sue componenti fondamentali. In ultimo al gruppo di Die Brücke aveva dato la sua adesione la professoressa Lidia Menapace, uscita con notevole clamore dalla Dc altoatesina e pronta a portare il suo impegno politico nelle file della sinistra.
La polemica sulle celebrazioni della guerra, a dire il vero, era iniziata già nella primavera precedente quando il gruppo di “Neue Linke” aveva reso pubblico, in occasione del 24 maggio, ricorrenza dell’entrata in guerra dell’Italia, un durissimo manifesto bilingue nel quale chiariva in maniera inequivocabile le proprie posizioni.
Nella foto di Casagrande, pubblicata da Il Giorno, Lidia Menapace e Alex Langer dopo il fermo da parte della polizia
“Ora la guerra – si diceva nel testo – viene celebrata come un MITO, in nome di un ricordo comune che si vuole pieno di gloria, si dimenticano le differenze di ieri e di oggi. […] Per questo come democratici non accettiamo i simboli della vittoria, (monumenti alla vittoria, fasci del ponte Druso, discorsi retorici), reagiremo alle interessate celebrazioni compiuti da giornali e da TV, ci asterremo dal commemorare una vittoria bellica ottenuta dall’interesse di pochi, con il sangue di molti e con la fame di compagni e fratelli contadini e operai del Trentino, del Tirolo e di altrove, vittime a loro volta di signori feudali e di magnati terrieri“.
Con l’approssimarsi del 4 novembre la polemica viene ripresa. Sul numero di ottobre, Die Brücke pubblica un editoriale dal titolo Fünfzig Jahre “Sieg” nel quale la polemica antimilitarista e antibellicistica viene approfondita con una chiave di lettura che tiene conto della necessità di esprimere queste critiche distaccandosi però dalle polemiche a sfondo nazionalistico che da sempre accompagnano avvenimenti del genere in Alto Adige. È una prosa molto dura che varrà a tre dei responsabili della rivista, Langer, Stuffer e Josef Schmid una denuncia da parte della Procura della Repubblica di Bolzano per i reati di vilipendio delle forze armate e istigazione alla disobbedienza.
A questi appelli venne ad aggiungersi quello dei cattolici del dissenso che indirizzano, in quei giorni, una sorta di “Lettera aperta al Popolo di Dio”, nella quale affermano tra l’altro: “i milioni di morti in guerra o per la guerra come i morti al lavoro e per il lavoro, appartengono alle sofferenze del popolo e non le ambizioni dei capi o all’interesse dei ricchi. Ma se la loro morte deve essere ricordata è solo per ricordare una sconfitta del popolo e un momento oscuro nella storia della salvezza“.
A questa mobilitazione di idee segue, la mattina del 4 novembre, la manifestazione di protesta, indetta qualche giorno prima e vietata dal questore per motivi di pubblica sicurezza. Verso le 10,30 di quel lunedì, tuttavia, i manifestanti, una cinquantina in tutto secondo i giornali che fanno la cronaca dell’evento, si ritrovano in piazza Matteotti che allora era ancora un luogo simbolo della sinistra bolzanina. Evitando di occupare la sede stradale per non provocare l’intervento degli agenti che in gran numero li sorvegliano attentamente, si dirigono poi verso il centro sino ad arrivare all’imbocco di via Museo dove decidono di effettuare un “sit in”. A seguirli, oltre alla polizia, anche un manipolo di attivisti di estrema destra, alla ricerca evidente dello scontro. È un motivo sufficiente, per le forze dell’ordine, per imporre al gruppo dei contestatori di sciogliere immediatamente la manifestazione, di alzarsi e di andarsene. Alcuni obbediscono, ma altri devono essere sollevati di peso. Sono in 17 e tra di loro, ovviamente, anche i promotori tra cui Alexander Langer e Lidia Menapace. Vengono portati in questura, trattenuti per l’identificazione e poi rilasciati. Il legale che li rappresenta, Sandro Canestrini , minaccia di denunciare la polizia per sequestro di persona.
Il giorno successivo gli avvenimenti occupano ovviamente un certo spazio, non certo eccessivo, sulla stampa locale. Il resoconto che cerca maggiormente di delineare quali siano le ragioni dei contestatori è quello comparso sulle pagine altoatesine del quotidiano Il Giorno, mentre la cronaca dell’Alto Adige, non è esente da qualche spunto più ironico che polemico. Trasuda imbarazzo, invece, l’articolo del Dolomiten, che non può non rilevare come la contestazione alle celebrazioni si accordi ai sentimenti di una larghissima parte della popolazione sudtirolese, ma che considera probabilmente quel gruppetto di interetnici molto più pericoloso dei nazionalisti italiani. La vicenda termina sostanzialmente così, senza troppi strascichi giudiziari. Le varie denunce i procedimenti aperti si chiudono nel giro di qualche settimana.
La vicenda in sé potrebbe addirittura sembrare non molto rilevante, se non fosse un segnale, uno dei molti in quel periodo, della nascita e della crescita in Alto Adige di un’opinione diversa rispetto all’andamento politico e all’analisi storica, da quelle dominanti, allora ed oggi, dei due nazionalismi contrapposti. Un’opinione scomoda, a tratti discutibile forse, ma dalla quale chiunque voglia occuparsi con serietà di cose altoatesine non può prescindere, allora come oggi.