Guardo notizie sullo schermo del computer. Incontro un volto simpatico, accompagnato da scritte allarmate. Mi pare di conoscerlo: è Alaa Abdel-Fattah. C’è una campagna di Amnesty per la sua liberazione. La sua immagine e la sua storia debbo averla intravvista lì. Protagonista della primavera araba, che investe anche l’Egitto nel 2011, è da allora perseguitato e ripetutamente incarcerato in condizioni inumane. Dal 2 aprile è in sciopero della fame. Apprendo pure che c’è chi si associa al suo digiuno, almeno per un giorno, anche in Italia. Chi vuole aderire può anche mandare una email a info@invisiblearabs.com
Si teme per la sua vita. Almeno che sia vivo siamo certi. L’assicura Paola Caridi, storica, saggista, presidente di Lettera22, nel suo aggiornatissimo blog. Altra buona notizia è la pubblicazione in arabo, a Beirut, del suo libro, uscito in Gran Bretagna e negli Usa e pure in Italia, nella collana diretta dalla stessa Caridi, “Non siete stati ancora sconfitti”. Drammatica è la situazione dell’Egitto. Nelle carceri sarebbero reclusi oltre 60.000 detenuti politici e di coscienza. Lunghi sono i periodi di detenzione preventiva. I processi sono ingiusti. Seguono torture ed esecuzioni capitali. Eppure “non sei ancora sconfitto” dice a ciascuno Alaa. Lo dice anche a noi che, in una situazione meno drammatica, ci sentiamo spesso sconfitti nella nostra speranza di liberazione dall’ingiustizia, dalla diseguaglianza, dalla discriminazione. Leggerò il suo libro e un giorno, almeno, digiunerò.
Il trattamento che gli è riservato non meraviglia. Conosciamo, anche per vicende vicine, l’attenzione che il regime ha per i suoi migliori cittadini, come Patrik Zaki, e per i giovani studiosi stranieri, come Giulio Regeni (Ma quale verità d’Egitto? 18 settembre 2017).
Alaa è figlio d’arte: nato, nel 1981, in una famiglia di intellettuali difensori dei diritti umani, della democrazia, dello stato di diritto. Al padre, Ahmed Seif – imprigionato sotto il presidente Anwar al Sadat e sotto Hosni Mubarak e torturato con scariche elettriche – vengono rotte braccia e gambe. Si laurea in carcere, mentre sconta la pena di cinque anni. Diviene un avvocato noto per l’impegno per i Diritti umani. Un impegno che condivide con la moglie Layla, madre di Alaa, docente di fisica.
Il primo arresto di Alaa è del 2006: una manifestazione per l’indipendenza dei giudici. Da piazza Tahrir, 2011, entra ed esce dal carcere. Particolarmente violento l’arresto compiuto nel novembre del 2013. Venti energumeni delle cosiddette forze di sicurezza irrompono nella sua casa picchiando lui e la moglie. C’è pure il figlio di due anni. Avrebbe organizzato una manifestazione senza i dovuti permessi. Viene rilasciato dietro cauzione il 23 marzo del 2014, per essere condannato a 5 anni nel processo d’appello, febbraio 2015. Finalmente in libertà “vigilata”: 12 ore fuori e 12 in una stazione di polizia. E nella stazione di polizia è arrestato di nuovo nel settembre del 2015.
Nel gennaio 2016 un suo intervento sul Corriere della Sera è quasi un bilancio di un impegno totalizzante. Non è un bilancio troppo positivo. “Ho scritto e scritto e scritto, per lo più in arabo, principalmente sui social media e a volte anche per un quotidiano nazionale. Per lo più parlavo a compagni rivoluzionari e la mia voce diventava sempre più quella di chi vuol mettere in guardia: i miei temi principali erano la fragilità del momento rivoluzionario e la precarietà della nostra situazione. Non riuscivo, tuttavia, a scrollarmi di dosso quel senso puro di speranza e possibilità: nonostante le battute d’arresto i nostri sogni continuavano a veleggiare… mi sono impegnato in una serie di iniziative progressiste volte a una democrazia più popolare, decentrata e partecipativa, ho rotto ogni legge draconiana e superato tabù, sono entrato in carcere sorridendo e ne sono uscito trionfante… Nel 2013 abbiamo iniziato a perdere la battaglia per il racconto in virtù di una velenosa polarizzazione tra uno statalismo pseudo-secolare rabbiosamente militarizzato e una forma di Islamismo brutalmente settario-paranoica… entro l’autunno 2015 anche le mie parole personali si sarebbero prosciugate. Sono passati mesi dall’ultima lettera scritta e più di un anno dall’ultimo articolo. Non ho nulla da dire: nessuna speranza, nessun sogno, nessun timore, nessun avviso, nessuna intuizione, nulla, assolutamente nulla”.
Al termine dell’articolo affiora un ricordo. “Una cosa che ricordo, però, e che so, è che il senso di possibilità era reale. Sarà anche stato ingenuo credere che il nostro sogno si sarebbe potuto avverare ma non era da sciocchi credere che un altro mondo fosse possibile. Lo era per davvero. O, almeno, così me lo ricordo”. È questo ricordo a non fargli abbandonare l’impegno.
Così dal 29 settembre del 2019, è di nuovo detenuto nel carcere di massima sicurezza, in condizioni di privazione totale e di isolamento. Il 20 dicembre 2021 un tribunale d’emergenza lo condanna senza appello. Nel digiuno contro l’ingiusta condanna chiede pure l’interessamento del consolato britannico. Ha infatti ottenuto tale nazionalità grazie alla madre, nata nel Regno Unito. Gli viene obiettato che non ha con sé il passaporto. Né è permesso di esibirlo alla madre e all’avvocato.
Preoccupano le sue condizioni per il lungo digiuno e per una detenzione che ammonta ormai a nove anni. In Italia le notizie su di lui sono poco diffuse dalla stampa (solo Domani, il Manifesto), da qualche sito e qualche trasmissione radiofonica. In Inghilterra e in altri paesi europei un po’ di più, anche per l’incessante azione svolta dalla sorella per sensibilizzare sulla situazione.
Per il regime, Alaa è una spina nel fianco. “Le mie affermazioni online vengono spesso usate contro di me nei tribunali e nelle campagne diffamatorie, ma non è questo il motivo per cui vengo perseguitato. Vengo perseguitato per la mia attività offline. Il mio defunto padre ha scontato una pena simile per il suo attivismo prima che esistesse una rete. Ciò che Internet ha veramente cambiato non è il dissenso politico, ma il dissenso sociale”. Online e offline il ricordo di un mutamento possibile, anche solo di averlo ritenuto e di poterlo ritenere tale, può essere qualcosa su cui costruire.