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Non era un gioco. Parlare di giustizia con gli adolescenti

DiElena Buccoliero

Apr 18, 2019

L’educazione alla legalità è un ambito amplissimo e si può affrontare in mille modi. In tante città – e anche nella mia – le forze dell’ordine propongono interventi nelle scuole, ci sono associazioni come Libera che affrontano il tema della criminalità organizzata, e altro viene portato avanti da insegnanti sensibili. A livello nazionale non voglio dimenticare una realtà ben strutturata e ricchissima di contenuti come l’associazione SulleRegole, che ha messo a disposizione un’ampia gamma di materiali online e ha buoni relatori, primo tra tutti l’inesauribile e meraviglioso Gherardo Colombo cui altri, negli anni, si sono affiancati.

In genere io faccio una cosa abbastanza precisa e legata alla mia esperienza: parlo della giustizia minorile. Chiedo a che serve, secondo loro, un tribunale per i minorenni e la prima risposta è “per processare i ragazzi”, puntando tutto sul penale. Una ragazza mi ha risposto che il tribunale per i minorenni protegge i ragazzi, sia quelli vittime di violenza sia quelli che la esercitano, e mi è sembrato un inquadramento perfetto. Domando, ancora, quali sono i reati più frequenti nella loro fascia di età e che cosa sarebbe giusto fare verso chi li commette. Dopotutto in Emilia Romagna c’è un solo istituto penale per i minorenni a fronte di tanti luoghi di detenzione per gli adulti; quale sarà il motivo?

Licei, istituti tecnici e professionali ospitano ancora – inutile negarlo – adolescenti complessivamente diversi tra di loro. Si differenziano per l’accettazione decrescente di alcune regole minime, come parlare uno alla volta, e per la dimestichezza diseguale nell’andare a fondo delle proprie convinzioni. Preferisco sempre le singole classi alle assemblee ma nei professionali questo è ancor più vero perché l’attenzione raramente sfida l’undicesimo minuto consecutivo e la compagnia è un continuo serbatoio di distrazioni, più è ampia e più è difficile ascoltare e parlare. Le mie due ore passano in fretta e mi resta il rammarico per tutto quello che non ci sta.

Eppure funziona, anche con i meno scolastici o i più disillusi, la testimonianza. Così se mi sposto da un enunciato generale ad un esempio specifico e cercando lo sguardo di ognuno racconto una storia, parlo di un processo al quale ho partecipato o di un ragazzo, una ragazza che ho incontrato, riconosco istantaneamente un salto nella qualità dell’ascolto. La capacità di interessarsi agli altri, e per questa via anche quella di ampliare l’orizzonte, caratterizza questi adolescenti e mi dà forza ogni volta che li incontro. Mi sembra anche una chiave efficace nelle mani degli adulti che vogliano aprire delle porte dove sembra di trovare soltanto dei muri. Una via da percorrere insieme a loro per stimolare un ragionamento più profondo in chi inneggia alla vendetta, alla chiusura, alla violenza come unica e immediata risposta alla violenza, meglio ancora se è una risposta organizzata, programmata, e magari sancita o almeno incoraggiata dalle istituzioni. Uniti, allora, contro i migranti (benché le loro aule ne siano piene, ma gli stessi ragazzi stranieri stanno nel coro), uniti contro gli omosessuali o contro qualsiasi diversità. Indossano un personaggio e giocano a fare i retrivi, mi chiedo a volte mentre sono in mezzo a loro, o ci credono davvero?

Eppure, solo a evocarla, l’idea di giustizia – potrei dire il bisogno di giustizia – risulta centrale in questi ragazzi e reclama risposte, nelle esercitazioni di stile su questioni ipotetiche nella loro vita, ma presentissime nei media e molto concrete quali la “legittima difesa”, al capire insieme perché è stata chiusa per un periodo la loro discoteca di riferimento sebbene i giovani avventori abbiano bevuto alcolici volontariamente e non per un inganno del gestore.

Anche l’idea della mediazione non è facile da evocare. “Se lo fanno a me prima lo faccio nero e dopo parliamo”, mi dicono alcuni. La faccia feroce è una risposta a tutte le ipotesi, dal tamponamento auto allo sguardo oltraggioso verso la ragazza, percepita molto spesso come proprietà.

Questi ragazzi però hanno un’umanità meravigliosa”, mi dicono nei professionali gli insegnanti contenti che per fortuna ci sono, a fronte di molti altri che aprono le braccia sconsolati e compilano domande di trasferimento. Sì, hanno un’umanità meravigliosa penso io, ma tanto, tanto bisogno di collegarla al cervello e di farli funzionare armoniosamente insieme. Mi spaventa, invece, ormai da tanti anni, vedere una fetta non piccola di generazione – non soltanto nei professionali, lì è solo più evidente – irretita da risposte facili e apparentemente forti, apparentemente rassicuranti. Sono ragazzi che singolarmente e di fondo si sentono spesso perdenti, agli ultimi gradini dell’istruzione, con famiglie non di rado accidentate. Il bisogno identitario è fortissimo, la disponibilità alle trappole altrettanto.

Sospendo la chiacchierata e proietto il video “Non era un gioco. Simulazione di un processo penale minorile” che abbiamo realizzato qualche anno fa con la collaborazione di tante istituzioni, al primo posto la Procura e il Tribunale per i Minorenni di Bologna, il Comune di Ferrara e la Regione Emilia-Romagna. Il video è parte di un kit che racchiude anche altri filmati e un libretto di accompagnamento sulla giustizia minorile ma di per sé propone lo sviluppo di un dibattimento penale nel quale un giovane è accusato di spaccio e lesioni gravissime. Il giudice che presiede l’udienza, il pubblico ministero, l’avvocato, il poliziotto sono davvero giudici, avvocati ecc. e portano in scena il loro mestiere. Fanno eccezione l’imputato – il presidente del tribunale per i minorenni di Bologna, credibilissimo nei panni di un adolescente – e i suoi esilaranti genitori.

L’udienza si conclude con l’ammissione del ragazzo ad un percorso di messa alla prova, ovvero ad un periodo di impegno e riflessione cui segue, se ben condotto, l’estinzione del reato.

Cosa dite, è stato giusto mettere alla prova l’imputato?, domando ai giovani spettatori, e anche loro, conosciuti i protagonisti, sono disposti ad ammettere il valore di una giustizia capace non soltanto di punire ma di aprire strade di cambiamento. Il valore della testimonianza, una volta ancora.

Di Elena Buccoliero

Faccio parte del Movimento Nonviolento dalla fine degli anni Novanta e collaboro con la rivista Azione nonviolenta. La mia formazione sta tra la sociologia e la psicologia. Mi occupo da molti anni di bullismo scolastico, di violenza intrafamiliare e più in generale di diritti e tutela dei minori. Su questi temi svolgo attività di formazione, ricerca, divulgazione. Passione e professione sono strettamente intrecciate nell'ascoltare e raccontare storie. Sui temi che frequento maggiormente preparo racconti, fumetti o video didattici per i ragazzi, laboratori narrativi e letture teatrali per gli adulti. Ho prestato servizio come giudice onorario presso il Tribunale per i Minorenni di Bologna dal 2008 al 2019 e come direttrice della Fondazione emiliano-romagnola per le vittime dei reati dal 2014 al 2021. Svolgo una borsa di ricerca presso l’Università di Ferrara sulla storia del Movimento Nonviolento e collaboro come docente a contratto con l’Università di Parma, sulla violenza di genere e sulla gestione nonviolenta dei conflitti.

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