Non c’è proprio niente di strano nel fatto che i minorenni ucraini rifugiati in Europa siano preoccupati per il loro futuro.
Ascoltarne ragioni e richieste può essere di aiuto nella programmazione dell’accoglienza, per loro e per i coetanei provenienti da altri paesi che, dopotutto, qualche incertezza per la vita che verrà possono condividerla.
Si stima che 7,7 milioni di persone abbiano lasciato l’Ucraina dall’inizio della guerra e, tra queste, gli under 18 dovrebbero essere circa 3 milioni (40%). Secondo dati del nostro Ministero dell’Interno, in Italia abbiamo accolto quasi 46.800 ragazzi, di cui meno di un decimo è arrivato senza genitori o altri familiari adulti; la maggioranza è qui con la madre. Il rapporto è molto diverso rispetto ad altre provenienze, dalle quali viaggiare soli è un vissuto comune a tanti giovanissimi.
Nell’estate scorsa un campione di oltre mille ragazzi e genitori, o altri adulti di riferimento, attualmente inseriti in Finlandia, Lituania, Italia, Paesi Bassi, Norvegia, Polonia, Romania e Svezia è stato coinvolto da Save the children in una indagine con questionari e focus group. Proprio in questi giorni scorsi è stato reso disponibile il rapporto di ricerca.
Non è facile lasciare tutto e vivere in una lunga sospensione, nemmeno quando l’Unione Europea provvede a permessi di soggiorno temporanei che almeno in teoria assicurano una rapida iscrizione a scuola e al sistema sanitario, la possibilità di una casa e i beni essenziali. Come sempre la realtà è un po’ diversa, per tante ragioni. Tra chi è arrivato nello scorso anno scolastico, circa un terzo non ha frequentato la scuola e un quarto solo quella online, preferibilmente collegandosi con il paese d’origine che durante la guerra ha potenziato il sistema di didattica a distanza sperimentato durante il lockdown. Le ragioni di questa scelta da parte degli studenti e delle loro famiglie sono ovviare le difficoltà di comprensione della lingua, dare continuità ai propri legami e, forse, rinviare l’ipotesi di doversi distaccare per un tempo lungo, o definitivamente, da ciò che ci si è lasciati alle spalle. Anche tra i genitori una quota importante ha affermato di preferire che i figli frequentino le scuole ucraine online piuttosto che entrare in classi estranee, ed è comprensibile che la frequenza scolastica rimandi a una normalità che si vorrebbe vivere nel proprio paese. Ancora, tra i ragazzi un quarto si era dichiarato poco propenso a iscriversi in una scuola locale nell’anno scolastico che nel frattempo è iniziato. Una resistenza molto umana, ma che finisce per impedire un’importante occasione di integrazione nel tessuto sociale.
I giovani intervistati hanno riportato un peggioramento generale delle loro condizioni psicologiche, con un incremento di tristezza, ansia, preoccupazione e solitudine testimoniato anche dai genitori. Soffrono di più coloro che vivono separati da almeno uno dei due, chi ha vissuto traumi connessi alla guerra (come avere assistito a uccisioni e torture) e gli adolescenti dai 16 anni in avanti. Eppure proprio i maggiori di età tendono a mettere in dubbio la possibilità di ritornare a casa, ponendosi su quella soglia così scomoda di chi non è più parte del mondo da cui proviene ma non è ancora veramente a proprio agio nel nuovo contesto.
Le sfide più difficili per questi ragazzi sono la perdita dei riferimenti e dei riti quotidiani, la barriera linguistica, la necessità di adattarsi in luoghi lontani e diversi da quelli in cui sono cresciuti. Quasi la metà ha dichiarato di non avere stretto legami con i coetanei che vivono nel luogo di arrivo e sono loro a dichiarare le maggiori difficoltà psicologiche.
Di che cosa ci sarebbe bisogno, dunque, per sentirsi a casa? Di avere degli amici (57%), fare sport o divertirsi con gli altri (56%) e imparare la lingua locale (54%). In poche parole: di vivere la propria età nel modo più “normale” possibile, dopo che la guerra ha frammentato tutto ciò che era consueto.
Il report di ricerca si chiude con alcuni consigli di buon senso e di buona politica rivolti all’Unione Europea e dunque anche all’Italia: estendere il permesso di soggiorno temporaneo tanto quanto sarà necessario affinché il rientro in patria avvenga in condizioni di sicurezza; investire sul benessere e sul contrasto alla povertà educativa; rendere questi giovani consapevoli dei propri diritti; favorire l’inserimento nella scuola anche attraverso interventi educativi e di supporto psicologico adeguati; istituire corsi di italiano dedicati; offrire occasioni per fare sport, musica e altre attività ricreative insieme ai coetanei del paese accogliente in modo da costruire nuove relazioni.
Mi piace sottolineare l’attenzione e la lungimiranza con cui ancora una volta Save the children non si limita a parlare dei bambini o degli adolescenti ma dedica risorse ad ascoltare e amplificare le loro voci. Per parte loro i giovanissimi come ogni volta dimostrano di essere ben consapevoli della propria condizione e dei propri bisogni. La direzione è ben tracciata e c’è da augurarsi che le loro richieste e proposte vengano prese sul serio.
Detto questo, forse per vecchia consuetudine a frequentare tutori di ragazzi stranieri, non posso impedirmi di pensare ai moltissimi minorenni che arrivano in Italia da altri paesi per mare o attraverso i Balcani, molto spesso senza il conforto di un genitore o di un familiare. Fuggono ugualmente dalla guerra o dalla povertà estrema, da condizioni ambientali impossibili. Sono poco o per nulla scolarizzati, avviati precocemente al lavoro per pagare i trafficanti, sopravvissuti a prigionia, torture, violenze, al lavoro forzato e a trasferimenti disumani.
Ben lungi dal voler contrapporre l’accoglienza ai ragazzi ucraini a quella riservata ai coetanei siriani, iraniani, egiziani… attendo che lo sguardo di chi assume decisioni riconosca quanto questi giovani abbiano gli stessi diritti, i medesimi bisogni e debbano ricevere le stesse possibilità, se davvero vogliamo essere un paese che prende sul serio i diritti di ogni bambino, di ogni adolescente.