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Non uccidere. Perché?

DiEnrico Peyretti

Mag 12, 2014

Dialogo

A. «Io dico: Non uccidere».

B. «Però, tu credi che la vita continua in altro modo, in una vita migliore. Allora perché non uccidere?».

A. «Già. Si può sperare qualcosa oltre la morte, ma questa vita è già un valore, è già preziosa».

B. «Vale forse, per te, più di quella vita successiva in cui credi? Dobbiamo preferire questa, rinviando quella migliore più lontana possibile? Non bisognerebbe accorrervi, se è una vita superiore? Alcuni hanno preferito morire per questo motivo. San Paolo, prigioniero, preferirebbe morire ed essere col Cristo, ma accetta di vivere per il suo compito di apostolo (Filippesi 1, 21-24). C’è chi si uccide, c’è chi si fa uccidere, sperando di stare meglio».

A. «Sì, lo fa chi sta vivendo una vita troppo dolorosa, o vergognosa. Oppure chi preferisce morire per non danneggiare altri. Intanto, bisogna distinguere la vita propria e la vita altrui. Della propria si può decidere, in modo cosciente e responsabile. La vita altrui sento che è da rispettare assolutamente: è una libertà inviolabile. Se c’è una vita superiore, ciò non è affatto un motivo per stroncare questa. Tutti amano conservarla. Dio la difende».

B. «Anche una vita cattiva, per te, va rispettata e mantenuta, anche se è pericolosa per altre vite? E che fare davanti a una vita tutta dolore, che vuole morire e non ci riesce?».

A. «Lasciamo da parte il caso (ammesso anche da Gandhi) di chi sta per uccidere altri e non abbiamo davvero, nell’immediato, nessun altro mezzo per fermarlo, che ucciderlo. A parte ciò, so che tu ammetti il far morire una vita tutta ridotta a tormento. Ma sei contrario alla pena di morte: non ammetti che si dia la morte a chi ha dato morte, neppure a chi ha abusato di altre vite, con la violenza politica, col dominio. Sono d’accordo con te, ma ci dobbiamo chiedere: perché? Grandi saggi e santi hanno approvato e considerata buona la pena di morte. Tu, quale bene vedi in una vita cattiva? Quale valore rispettabile?».

B. «Non so dirlo con chiarezza. So che non aggiungerei la morte come pena alla morte come delitto. Vedo una necessità morale, non vedo il perché».

A. «Forse una prima ragione è nel fatto che ogni morte fa soffrire alcuni, o molti, innocenti, che avevano caro quel vivente. Ma ci sono pure molti che hanno un bel sollievo per la morte di un tiranno, o di un brigante, o di un nemico».

B. «Il dolore degli amici, o la soddisfazione dei nemici, non fa che spostare il problema. Anche chi è indifferente a quella persona, si sente offeso dall’offesa ad una vita. Perché? Io sento che guerra e violenza su altri sono un’offesa fatta a me. Anche chi non perde una presenza cara, è offeso dalla morte data ad altri. Pur se abituati, la notizia quotidiana di omicidi ci opprime. Qui c’è almeno una solidarietà biologica. Si direbbe che la presenza in questa vita è un bene non solo per ogni singolo, ma per molti, per la nostra specie. La “regola aurea” nella formulazione buddhista dice: “Tutti tremano al castigo, tutti temono la morte, tutti hanno cara la vita: mettendoti al posto degli altri, non uccidere, e non fare uccidere” (Buddha, Dhammapada, I versi della legge, 10, 129-130)».

A. «Eppure, siamo capaci di superare questa solidarietà vitale. Abbiamo saputo trovare cento motivi per sopprimere altre vite umane (senza parlare degli animali). Forse bisogna guardare oltre il semplice interesse a vivere. Se consideriamo la vita un profondo insieme di possibilità, di potenzialità praticamente infinite, cioè ogni vita come mistero denso di sviluppi possibili e ignoti, in tante dimensioni, allora cominciamo a coglierne un carattere di inviolabilità: io devo astenermi dal mettere le mani sul “mistero”, su ciò che – letteralmente – mi “ammutolisce”, che sfugge alla mia dicibilità, alla definizione (cioè, al tracciarne i limiti), e al mio giudizio. Non so vedere e non so dire tutto, di una vita. La vita, ogni vita, è una grandezza che non posso avvicinare con una forza offensiva, che devo “ri-spettare”, nel senso di tenere una distanza tale da potere riconoscerla senza disporne, senza manometterla. Il valore della mia vita dipende anche dall’identificarsi, e nel contempo sottomettersi, a questa venerabile profondità di ogni altra vita».

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[Dopo avere messo giù queste righe, mi accorgo di avere già raccolto, anni fa, alcune risposte alla domanda posta nel titolo, nel libro di vari Autori, Al di là del “non uccidere” (Cens, Liscate, Milano 1989), alle pp. 99-117]

 

Di Enrico Peyretti

Enrico Peyretti (1935). Ha insegnato nei licei storia e filosofia. Membro del Centro Studi per la pace e la nonviolenza "Sereno Regis" di Torino, del Centro Interatenei Studi per la Pace delle Università piemontesi, dell'IPRI (Italian Peace Research Institute). Fondatore de il foglio, mensile di “alcuni cristiani torinesi” (www.ilfoglio.info). Collabora a diverse riviste di cultura. Gli ultimi di vari libri (di spiritualità, riflessione politica, storia della pace) sono: Dialoghi con Norberto Bobbio su politica, fede, nonviolenza, (Claudiana, 2011); Il bene della pace. La via della nonviolenza (Cittadella, 2012). (peacelink.it/peyretti)

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