Proprio in questo periodo, in cui fatti drammatici riportano all’attenzione collettiva il carcere, con ciò che è e dovrebbe essere, come pure le condizioni inumane nelle quali vivono troppo spesso i migranti sottoposti alla “detenzione amministrativa” (inaccettabile in sé: nessun italiano va in galera per debiti o perché passa col rosso, tanto per fare due esempi di illecito amministrativo diversi dall’assenza di documenti che può essere riscontrata ai cittadini stranieri), ecco un’intervista sul tema a Daniele Lugli datata 2008. In quel periodo era presidente del Movimento Nonviolento e aveva assunto da pochi mesi il ruolo di Difensore civico della Regione Emilia-Romagna. L’intervista è stata raccolta da Elena Buccoliero per Azione nonviolenta. I contenuti valgono anche adesso.
Caro Daniele, cosa c’entra la nonviolenza con il carcere?
La pratica della nonviolenza è in buona misura una pratica del carcere. Basti pensare alle ripetute carcerazioni di Gandhi e all’ancor più lunga prigionia di Badshah Khan, il “Gandhi delle frontiere”. In carcere sono morti la moglie del Mahatma e il suo più stretto collaboratore, segretario e biografo… E poi le carcerazioni di Luther King, di Mandela…
Per venire a persone a noi più vicine, due volte è stato imprigionato Aldo Capitini, e così Pietro Pinna e dopo di lui molti altri obiettori di coscienza fino alla legge del ’72, e Danilo Dolci “socialmente eversivo”. Dalla lunga prigionia del tempo di guerra Davide Melodia, già segretario del Movimento Nonviolento, ha tratto motivo per lavorare a lungo nelle carceri italiane, e per un libro del 1975, “Carcere, riforma fantasma”.
Il carcere connota ancora, in molti, troppi paesi, proprio quell’opzione fondamentale della nonviolenza che è l’obiezione di coscienza. Già Thoreau era arrivato a dire che “in uno Stato ingiusto, il posto del giusto è il carcere”.
Dunque il carcere interessa solo in quanto luogo che accoglie chi si batte contro l’ingiustizia…?
No, c’è dell’altro. Il pensiero della nonviolenza incrocia il tema del carcere non solo come conseguenza accettata della opposizione a leggi ritenute ingiuste, ma più in generale come risposta alla violazione di regole decisive per la convivenza. Su questo la nonviolenza compie una operazione sulla quale grande è l’accordo in teoria, quanto assente nella pratica. Convinta che “al centro dell’agire sono persone”, si sforza di ritrovarle quale che sia l’azione compiuta; non vede il ladro, lo stupratore, l’assassino, ma la persona che ha rubato, violentato, ucciso, e la necessità di intervenire per alleviare la sofferenza inferta, per impedire che altra se ne produca, per aiutare anche il reo in un processo di liberazione.
In un disegno di crescita sociale verso la “realtà liberata”, qual è il posto del carcere?
Non dovrebbe esserci. Pubblicato postumo, “Potere di tutti” di Capitini riporta che “ci può essere la pena e ci può non essere, se uno sostituisce al contesto che comprende la pena un contesto che comprenda un atto di apertura nonviolenta”.
Che cosa significa in concreto?
Ha alla base appunto l’apertura al vivente, alla possibilità delle persone di cambiare in meglio e non solo in peggio. Diceva Capitini che “nonviolenza è apertura all’esistenza, alla libertà, allo sviluppo dell’altro”. Questa indicazione, se applicata a una persona che ha commesso un crimine, vuol dire intanto accettare che esista, e quindi rifiutare senza alcuna possibilità di eccezione la pena di morte, e operare per la sua libertà aiutando lo sviluppo di qualità e relazioni che evidentemente sono mancate e che hanno condotto alla rottura del patto sociale. Del resto la nostra Costituzione non parla di carcere, parla di pene che “non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità, e devono tendere alla rieducazione del condannato” (art. 27 c. 3).
Non siamo i primi ad avere questa impostazione. Lasciami ricordare un paio di anniversari…
Di quali anniversari si tratta?
Ripensando alla questione carceraria sono andato a rivedermeli. 250 anni fa si è laureato Beccaria. Nel suo libro “Dei delitti e delle pene” indicava come delitto più grave quello di lesa maestà (oggi diremmo: attentato alla Costituzione), seguivano quelli contro le persone e, infine, i reati che turbavano la tranquillità sociale. Oggi la repressione colpisce in ordine inverso.
222 anni or sono Leopoldo, Granduca di Toscana, ha abolito la pena di morte all’interno del suo Stato, considerando “che l’oggetto della pena dev’essere la soddisfazione al privato ed al pubblico danno, la correzione del reo figlio anch’esso della società e dello Stato, della di cui emenda non può mai disperarsi”. Ci fosse oggi in Italia un referendum sulla pena di morte, non sono sicuro che il nostro livello di civiltà sarebbe quello del Granduca.