Non sono un esperto di giustizia riparativa, ma ho seguito la genesi di questa nuova modalità operativa della giustizia italiana, da poco entrata ufficialmente nel nostro ordinamento, anche per gli adulti.
A febbraio scorso, ho avuto modo di confrontarmi con operatori della mia città, Palermo, da tempo impegnati presso il Tribunale dei Minori e presso l’Ufficio di Mediazione Penale del Comune di Palermo.
Ho accettato volentieri l’invito della “Scuola di Pace” (promossa a Palermo da Pax Christi, dal MIR e dalla Consulta comunale per la Pace) poiché ritengo che pensiero e metodo nonviolento possono considerarsi parte dei fondamenti di questo modo affatto originale di concepire la giustizia. E penso anche che le strategie di superamento dei sistemi mafiosi debbano, prima o poi, incontrare questo patrimonio culturale e di pratiche sociali di mediazione fin qui sviluppate in ambiti penali che raramente hanno inclusi i reati di mafia.
Chi mi conosce sa che la nonviolenza cui faccio riferimento è quella dell’insegnamento spirituale dell’Arca. La Comunità dell’Arca ha due sotto titoli nel suo logo e nelle sue Costituzioni: NONVIOLENZA E SPIRITUALITA’.
Emerge già in queste prime note di presentazione un elemento di possibile contraddizione (o di incontro spiazzante?) su cui mi interrogo in questi giorni in cui cerchiamo di rapportarci al tema della guerra. Emerge anche nella riflessione che mi interroga fortemente nella mia collocazione lavorativa come operatore di un Dipartimento pubblico di Salute Mentale. Un ambito che ha visto un cambiamento istituzionale importante come la chiusura dei manicomi.
Mi riferisco al rapporto tra dimensione istituzionale e dimensione spirituale.
Quando parliamo di istituzioni ci riferiamo ad organizzazioni, processi, consuetudini con una forma definita, regolata e diffusa all’interno di gruppi sociali. Quando parliamo di istituzioni pubbliche ci riferiamo ad organismi che hanno fondamento negli stati e nelle loro costituzioni. Quando parliamo di istituzioni civili ci riferiamo a organizzazioni e processi, comunque riconosciuti socialmente, anche se non trovano necessariamente fondamento nelle leggi dello stato e che spesso però gli stati tentano di inglobare all’interno delle norme formalmente riconosciute dagli stati stessi.
Parlare di spiritualità comporta invece l’entrare in un campo di difficile definizione, sul cui significato dobbiamo però tentare di addentrarci per tentare una comunicazione efficace e per sgombrare il campo da possibili diverse interpretazioni. Dobbiamo quindi dire che la spiritualità non coincide con la religiosità o con l’appartenenza ad una confessione religiosa. Nella tradizione nonviolenta penso che la spiritualità si colleghi ad una dimensione intima alla quale ogni uomo fa riferimento. Dimensione che però sfugge ad una definizione razionale, dimensione indimostrabile, ma della quale facciamo tuttavia esperienza, di cui possiamo comunque parlare con i nostri simili, poiché presupponiamo che essi possano riferirsi a qualcosa di reale, così come noi. Possiamo dire allora, rischiando si semplificare che Gandhi definiva quest’esperienza “voce interiore”, Aldo Capitini amava definirla “intimo”, Lanza del Vasto, il fondatore dell’Arca parla di questa dimensione usando il termine “coscienza”, quando ci invita a sospendere i nostri uffici alcune volte nella giornata per richiamarla (rappel), o quando ci dice che nel rapporto conflittuale con l’avversario “è nonviolento chi mira alla coscienza”.
C’è un secondo elemento che caratterizza il fondamento di fede della nonviolenza ossia che questa dimensione intima ha un legame tra tutti gli esseri umani e tra questi e gli altri esseri viventi. C’è un’unità tra gli esseri umani, anch’essa indimostrabile (anche se alcune ricerche scientifiche come quella sui neuroni specchio o altre nella fisica quantistica cominciano a dirci qualcosa di interessante…) Di tale unità comunque non tutti facciamo esperienza costantemente, con continuità. La coscienza di questa unità profonda si addormenta, si assopisce (ecco l’esercizio del rappel suggerito da Lanza del Vasto), ma può risvegliarsi anche per iniziativa di un altro mio simile. Quando ho cominciato a riflettere su questi temi ho schematizzato come possa essere proprio colui che riceve una violenza a poter risvegliare la coscienza dell’aggressore e ho pensato a quattro passaggi di un possibile percorso nonviolento che parta da colui che riceve violenza ma sente che colui che lo ha colpito, come diceva Falcone, “gli rassomiglia”.
- Un’affermazione positiva che interrompe quella che potrebbe diventare una escalation di violenza:
IO NON DESIDERO LA TUA MORTE!
- Una comunicazione esplicita della propria sofferenza:
MA CIO’ CHE TU HAI FATTO MI FA SOFFRIRE!
- Una disponibilità a riconoscere le ragioni dell’avversario:
COSA TI HA PORTATO A TANTA CRUDELTA’?
- Un atteggiamento di auto-purificazione:
C’E FORSE QUALCOSA IN ME CHE HA CONTRIBUITO A CHE TU TI COMPORTASSI COSI’?
Sequenze simili potrebbero essere schematizzate a partire dall’aggressore che rivede criticamente il suo agire o anche da una terza parte non coinvolta direttamente nel conflitto che interviene affinché si risvegli tra in contendenti quella coscienza di unità profonda, più forte del motivo del contendere che possa indurre all’abbandono della violenza distruttrice.
Nel preparare l’incontro sulla giustizia riparativa del mese scorso, mi ha molto aiutato la lettura di un libro di un padre della giustizia riparativa in Italia, Adolfo Ceretti. Il titolo del libro è Il diavolo mi accarezzava i capelli.
Mi ha molto colpito lo stile di questo libro in cui l’autore prima ancora di parlare di mediazione e giustizia riparativa non può fare a meno di parlare di sé stesso, della sua biografia, anche di alcuni aspetti intimi della sua vita. C’è quindi una genesi della giustizia riparativa che affonda le sue radici in quella che in senso lato chiamavamo pocanzi “spiritualità”. C’è qualche uomo che si interroga e comincia a sperimentare… facendo diventare la sua interrogazione intima un fatto sociale.
Nel caso della giustizia riparativa, termine che è entrato ufficialmente nel nostro ordinamento, avviene ciò che richiamavamo prima, cioè il fatto che una forma di esperienza civile relativa alla risoluzione dei conflitti, sia entrata nelle regole codificate del nostro Stato, superando gli ostacoli anche di tipo costituzionale e i vincoli della compatibilità con l’ordinamento penale che nella Costituzione dovrebbe avere la sua cornice di riferimento.
Mi fermo su questo tema istituzione/spiritualità, sul quale, come si dice in questi casi, potremmo fare un seminario a parte, per addentrarmi su alcune narrazioni che ci possono dare degli spunti di riflessione in un orizzonte più legato alla nostra storia meridionale.
È per questo che voglio raccontare due storie, delle quali ho già scritto su questo blog: esse ci dicono che non c’è reato e contesto in cui la giustizia riparativa non possa essere applicata.
La prima storia non è propriamente una storia di giustizia riparativa ma capirete come con essa ha molto in comune. La storia è brevemente la seguente: Elvio Fassone presiede la Corte di Assise di Torino chiamata a celebrare nel 1985-1988 il maxi processo alla mafia catanese, un processo che si svolge a ridosso di quello di Palermo (1986-1987). Tra gli imputati un venticinquenne, al quale nel libro un nome di fantasia, Salvatore, giovanissimo boss catanese che, nelle prime giornate del processo assume senza esitazione un atteggiamento ostile e provocatorio verso la Corte. L’esigenza di un permesso per visitare la madre morente induce Salvatore a chiedere il permesso al giudice, che attenendosi alla legge, che prevede un certificato che attesti le condizioni gravissime, si assume comunque la responsabilità di una concessione che ogni prudenza istituzionale avrebbe evitato.
Mi colpisce lo stile di quest’uomo della giustizia: durante il processo, ad esempio, si intrattiene fuori dall’udienza (la legge non lo vieta) per ascoltare bisogni e necessità degli imputati e dei familiari.
Il permesso viene accordato. Salvatore rientra in carcere dopo la visita alla madre e, alla successiva udienza, dalla “gabbia” degli imputati, cerca di incontrare lo sguardo del Presidente che, a distanza, interpreta il labiale: «Sono tornato!». Fotogrammi che ciascuno può ben rappresentarsi. Essi sanciscono il nascere di un’amicizia improbabile: quella tra un giudice e l’uomo che egli condannò all’ergastolo.
È in uno di questi incontri che Salvatore chiede al Presidente se abbia dei figli. Fassone risponde che ne ha due di cui uno della sua stessa età. E Salvatore (esternando una riflessione forse non estemporanea ma maturata in quei giorni) gli risponde: «Se suo figlio fosse nato dove sono nato io, adesso lui sarebbe nella gabbia e se io fossi nato al posto di suo figlio oggi sarei un avvocato e magari anche bravo…»
Fassone svela che, finito l’estenuante processo, dopo la clausura della camera di consiglio, durata poco meno di un mese, confida subito alla moglie l’inquietudine per quel ragazzo omicida condannato ad una pena senza fine. Vorrei scrivergli, le disse, esternando al contempo una serie di dubbi legati al suo ruolo istituzionale e all’opportunità di un contatto così inusuale… Ma la moglie del giudice lo sostiene consigliandogli di non andare per il sottile e fare ciò che lui sentiva fosse giusto fare. Rifletto ora sull’uso della parola “giusto” che per un giudice ha certamente un peso e un significato diverso da quello che ha per un uomo qualsiasi.
L’intuito femminile contribuisce a far proseguire questa singolare relazione che dura ancora oggi dopo più di 40 anni. Si sancisce tra i due un patto, implicito, ma fortissimo: il condannato farà di tutto per vivere secondo le regole della civile convivenza, si impegnerà a studiare, lavorare e mantenere la schiena dritta a non rinunciare mai alla propria dignità e alla speranza. Il giudice lo sosterrà umanamente, per quello che può e che sa, anche a distanza. Ambedue le promesse saranno mantenute. Fassone aiuterà Salvatore a districarsi nei pantani burocratici che, dentro il sistema penale, sono molto più crudeli di quanto lo sono per tanti di noi, inclini a lamentarcene continuamente. Salvatore inizia a studiare, consegue la licenza elementare e vari titoli professionali frequentando con caparbietà tutte le occasioni di corsi formazione offerti dal carcere, al termine dei quali invierà soddisfatto copia dell’attestato al suo amico magistrato. Attraversa la stagione del carcere duro, previsto, dopo le stragi del 92, per i mafiosi che non hanno collaborato con la giustizia; arriva alle soglie della semilibertà, si oppone, anche formalmente e con l’aiuto del suo amico-magistrato a quei giudici che motivano i dinieghi “a causa della gravità dei reati commessi”: possono mai i reati che prevedono l’ergastolo non essere “gravi”?
Salvatore è ancora oggi in carcere ed è arrivato a 42 anni di vita vissuta dietro le sbarre. Avere tentato il suicidio in una sola occasione dopo decine di eventi sfortunati che lo hanno sempre portato al punto di partenza, senza sue responsabilità, a me sembra quasi un miracolo. Ma ancor più esemplare la modalità con cui lo racconta al suo amico: «Caro Presidente, oggi ne ho combinata una delle mie… Mi sono impiccato, le chiedo scusa». Scusa per aver mancato a quell’impegno implicito alla speranza preso con Fassone all’inizio della corrispondenza. La prontezza di una guardia carceraria permetterà a Salvatore di scrivere quest’altra lettera…
Siamo quindi dentro il dibattito sul 41 bis riaperto in questi ultimi tempi a causa della vicenda Cospito. Mi permetto di sostenere, con il giudice Fassone, un’idea diversa di giustizia che potrebbe farsi strada con la giustizia riparativa che dovrà ora cominciarsi a sperimentare anche nell’area penale adulti.
Un’idea di giustizia che, senza perdere il rigore necessario per reati efferati, non rinunci mai ad offrire un volto umano e collaborativo.
La storia narrata da Elvio Fassone è certamente in primo luogo la storia di due singolari umanità. Ma è anche la storia di due coscienze che si lasciano penetrare, l’una dall’altra.
Elvio Fassone testimonia saggezza mitezza lucidità e capacità comunicative fuori dal comune.
Così la capacità di trasformazione interiore e la forza di volontà di Salvatore penso siano caratteristiche umane eccezionali, che nascono in una persona che era stata capace di crimini orrendi.
Ma è possibile trovare un senso che restituisca valore oltre la patina dell’eccezionalità che ricopre la storia narrata?
La storia di Salvatore, la sua incredibile corrispondenza che dura da 38 anni con il giudice che lo condannò all’ergastolo, la sua tenace ricerca di rifarsi una vita sana, la sua buona condotta dentro svariate carceri d’Italia, l’innegabile sofferenza subita dentro questi luoghi, sembrerebbero pareggiare un conto che nessuna equazione matematica potrà mai risolvere fino in fondo.
Ma proviamo anche a tenere in sospeso questa convinzione e chiediamoci ancora: storie come questa non potrebbero forse rivestire una funzione educativa e preventiva per la comunità tutta se narrate direttamente e fuori dal carcere dallo stesso protagonista?
Dal 1999 il Ministero che si occupa degli affari penali non si chiama più Ministero di Grazia e Giustizia, ma Ministero della Giustizia. L’istituto della grazia permane prerogativa del Presidente della Repubblica, ma la scomparsa di quel sostantivo dal nome del Ministero è come se avesse sterilizzato quel sistema da quella dimensione di gratuità e di sguardo umano su un reo pentito (anche se non collaborante).
E mi chiedo ancora se i giudici e gli operatori della giustizia tutti (non solo le professioni sociali che operano all’interno di questi sistemi) possano essere in qualche modo formati a maturare sensibilità e orientamenti, se non uguali a quelli dei protagonisti di questa storia, ugualmente orientati a quella dimensione rieducativa della pena prevista dalla nostra costituzione, quella dimensione rigenerativa che i diamanti sconoscono e di cui il letame è portatore.
La seconda storia
Lucia Di Mauro, vedova di Gaetano Montanino, guardia giurata uccisa nell’agosto del 2009 da una banda di giovanissimi camorristi che si volevano impossessare della sua pistola. Della banda faceva parte il killer Antonio, un giovane diciasettenne, che, dopo l’arresto, inizia un percorso di reale pentimento. Antonio chiede al Direttore del Carcere di volere incontrare la vedova Montanino. La richiesta arriva a Lucia, che, pur sensibile al futuro dei minori in carcere, dove ha cominciato a fare volontariato, resta interdetta di fronte a questa particolarissima provocazione. Il Direttore, che conosce la sincerità del percorso di Antonio, condannato nel frattempo a ventidue anni di carcere, manifesta tutta la sua preoccupazione per il trasferimento in un carcere per adulti, dove il suo destino sarebbe segnato per sempre. La riconciliazione con Lucia faciliterebbe invece un percorso penale alternativo. Lucia, che prima dell’omicidio svolgeva il lavoro di assistente sociale, comprende bene che la giustizia riparativa, questa volta, non è una teoria da leggere su un manuale ma una domanda che arriva al profondo del suo cuore ancora ferito. Si consulta con i familiari che la sconsigliano: incontrare quel giovane sarebbe un oltraggio alla memoria del marito. Poi, nel 2017 l’incontro non programmato, casuale, durante una giornata dedicata da LIBERA alle vittime innocenti di mafia. Antonio ottiene un permesso per partecipare alla manifestazione. Anche Lucia è lì. Ancora una volta Antonio insiste per incontrarla. Lei acconsente ad un incontro per nulla programmato, travolta dal caso. Antonio le si avvicina tremante e in lacrime. Giunto davanti a lei, per l’emozione sviene tra le sue braccia. Lucia lo abbraccia, e da quel momento tutto cambia. «Non ho mai visto tanta sofferenza negli occhi di un giovane», racconta Lucia. Una sofferenza certamente diversa dalla sua, ma forse non meno intensa e drammatica. Inizia così da parte di Lucia una vera e propria adozione di Antonio, della sua compagna e dei loro due figli nati dopo l’assassinio di Gaetano.
Antonio comincia, con una Cooperativa, a lavorare, svolgendo servizi di pulizia presso il centro sociale intitolato proprio al marito di Lucia, Gaetano Montanino.
Quel lavoro non è stato duraturo e tutto il percorso ha rischiato di arenarsi.
Lucia, molto amareggiata, si è interrogata su questo e si è impegnata con le associazioni di cui fa parte, affinché lo Stato possa riconoscere il valore rieducativo del lavoro fatto da Antonio e di altri analoghi percorsi rivolti a minori catturati e plagiati dai sistemi criminali. In fondo – ci dice – con i soldi che lo Stato impiega per mantenere in carcere una persona, si potrebbero garantire percorsi d’inserimento lavorativo a quei detenuti che prendono le distanze dal proprio passato criminale.
Vedere la famiglia di Antonio, killer di mio marito, crescere in ambienti più sani di quelli di origine mi dà sollievo, dice Lucia. Quando un dolore incontra un altro dolore, può avvenire che l’uno e l’altro si attenuino.
Gandhi sosteneva a tal proposito che la nonviolenza fa bene a chi la riceve e a chi la fa.
L’impegno di Lucia non si limita solo al caso di cui abbiamo parlato. Si è costituito, infatti, un coordinamento di vittime innocenti di mafia di cui Lucia è una delle più attive animatrici. All’incontro siciliano era con lei una giovane ragazza la cui madre è stata uccisa, per caso, quando lei era ancora bambina, da una pallottola che la ha raggiunta durante una sparatoria.
Raccontare la mia storia – ci ha detto ancora Lucia – non è mai facile, ma so bene che se raccontassi questa storia senza emozione e intensità, servirebbe a ben poco.
È per questo motivo che, girando tutt’Italia, continua a narrarla, in particolare ai tanti giovani su cui fanno leva le mafie. Il suo impegno è una grande testimonianza di vita e traccia altresì una pista per un’azione sociale nonviolenta aperta anche alle istituzioni ed alla società civile.
Queste due storie sono storie di grande spiritualità. Ma sono storie che si interfacciano con le istituzioni. La prima non comprende la vittima (o le vittime) del reato ma non per questo possiamo ritenerla fuori tema poiché ogni mediazione penale ha vari protagonisti oltre i contendenti (l’autore del reato, le vittima diretta e la società tutta e una parte terza che si vorrebbe equidistante ma che nella prospettiva nonviolenta e della giustizia riparativa si definisce equi-vicina. In questo caso il Giudice anch’egli uomo e portatore, per dirla con Gandhi, di una sua voce interiore.
«Giudicare», riflette in un’intervista di qualche anno fa Fassone, «è applicare la legge e la legge funge in parte da riparo ai turbamenti della coscienza, perché tante volte la pietà ti potrebbe condizionare. I margini del giudice stanno solo negli snodi che la legge ti dà laddove si può attuare un certo grado di discrezionalità».
Fu in quella sorta di post-udienza per ascoltare i bisogni degli imputati, non vietata, ma neanche prevista per legge, che nasce l’incontro tra il Giudice Fassone e il reo Salvatore e in quell’incontro non programmato e fuori da ogni aula di tribunale che ha inizio la storia di Lucia Di Mauro e dell’assassino di suo marito.
Ho conosciuto in questi giorni Simone Scinocca, che ha messo in scena a Torino Il libro di Elvio Fassone Fine Pena ora. Stiamo tentando di poter fare arrivare questo spettacolo a Palermo nella prossima stagione teatrale. La storia del vero Salvatore ha avuto un epilogo straordinario. A conclusione di uno degli spettacoli dopo 38 anni, Fassone e il vero Salvatore di sono incontrati. In questi giorni il Tribunale dovrebbe esprimersi sulla semilibertà. Ma a fronte di questo pronunciamento, che, se sarà positivo, consentirà al vero Salvatore di poter uscire e lavorare all’esterno, dopo 42 anni di detenzione, la cooperativa che aveva dato la disponibilità ad accoglierlo si è tirata indietro. Lo Stato potrebbe “restare” violento la per mancanza di una mano civile!
Possiamo tornare quindi al tema problematico dal quale eravamo partiti. Può la nonviolenza spirituale farsi istituzione? Ha senso adoperarsi perché le istituzioni diventino nonviolente?
La domanda ovviamente resta aperta al contributo di tutti. Personalmente penso che le due domande hanno forse una risposta diversa. Penso che no, che la nonviolenza non possa essere ingabbiata in nessuna costruzione umana. Tuttavia il nostro cammino va avanti nella storia e nelle società che si danno comunque delle forme. Lo stato ha, aimè, un fondamento violento che Hobbes ha descritto e giustificato più di tre secoli fa. Ciò non toglie che gli Stati non possano via via rintracciare modalità non distruttive di quella conflittualità originaria che ci costituisce. E ciò sia nel campo della giustizia interna, della salvaguardia dai pericoli, dalle malattie ecc., sia nel campo della difesa, nell’immunizzarci cioè dalle aggressioni esterne.
In questo senso la giustizia riparativa arriva prima, ma è paragonabile all’istituzione della difesa non armata e nonviolenta di cui pure è stata scritta una proposta di legge.
Ciò di cui possiamo esser certi e che l’una e l’altra non possono nascere senza il contributo della società civile e nostro personale. Non esiste una palingenesi dello stato se non a partire dalla società civile e la società civile si alimenta con le nostre voci interiori, il nostro intimo, le nostre coscienze.
C’è chi obietta: “volete forse una società senza carcere e senza esercito? Queste sono utopie!” Anche una società senza manicomi, ci dicevano, è un’utopia. E adesso che non ci sono più diventa utopia una società con servizi di salute mentale accoglienti e funzionanti.
Anche una società senza mafie è un’utopia.
A questo proposito, lo scrittore e giornalista uruguayano Edoardo Galeano, diceva: “l’utopia è là nell’orizzonte. Mi avvicino di due passi e lei si distanzia di due passi. Cammino 10 passi e l’orizzonte corre 10 passi. Per tanto che cammini non la raggiungerò mai. A che serve l’utopia? Serve per questo: a non smettere mai di camminare”.
La nonviolenza è l’orizzonte che ci fa camminare.
Su tutto questo, mi piacerebbe avviare un confronto con gli amici di Azione Nonviolenta.