O la sinistra fa dell’impegno per la pace
il terreno decisivo dello scontro tra cività e barbarie
o rimane di destra anche se si proclama di sinistra
Carlo Cassola
Nel 1989 i popoli europei abbatterono il muro di Berlino che divideva in due l’Europa e il mondo. In molti immaginavamo – o forse speravamo – che con la fine della divisione tra Est e Ovest, la corsa agli armamenti, che aveva raggiunto il picco di spesa militare nel 1988, ed alimentato la “guerra fredda” (che alle periferie degli imperi era diventata terribilmente “calda”) potesse avere finalmente fine e si aprisse una fase nuova per l’umanità. Un periodo di prosperità fondato sui dividendi di pace, cioè sulla liberazione di risorse dalle spese militari a beneficio delle spese civili e sociali.
Invece – come la fine della seconda guerra mondiale si chiuse con la manifestazione di potenza degli USA che sganciarono le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki, volendo segnare la supremazia sull’Unione Sovietica – la fine dei blocchi contrapposti si aprì con l’invasione della coalizione a guida USA dell‘Iraq, nel 1991 – a seguito dell’occupazione di questo dei pozzi petroliferi del Kwait – volendo segnare la supremazia del blocco occidentale sull’intero pianeta. Per la prima volta dalla fine della seconda guerra mondiale, anche l’Italia – aprendo uno squarcio nella Costituzione, mai più ricucito – diede il suo contributo alla guerra. E’ con quella che sarà ricordata come la “prima guerra del Golfo” che comincia l’ossimoro retorico della “guerra umanitaria”, delle “missioni di pace” fatte con la guerra, della “esportazione della democrazia” attraverso le bombe al fosforo bianco e all’uranio impoverito, che produssero – in quel caso – alcune centinaia di morti tra le truppe occidentali, centinaia di migliaia tra militari e civili irakeni. Da allora è un crescendo di interventi armati in giro per il pianeta: Somalia (1992), Haiti (1994), Bosnia (1995), bombardamenti su Bagdad (1998), Kossovo (1999).
Un primo “contraccolpo” (come lo ha definito lo storico americano Chalmers Ashby Johnson) di questa frenetica attività bellica USA – spesso accompagnata dalla coalizione armata occidentale – è l’attacco dell’11 settembre 2001 alle “torri gemelle” di New York. Oggi si scopre, peraltro, che gli attentatori furono “attivamente aiutati” da funzionari del governo saudita, alleato storico degli USA e dell’Europa. Non fu quella tragedia l’occasione per fermarsi a riflettere sul senso e l’efficacia per la sicurezza globale – ed anche interna degli USA – della proiezione imperialistica occidentale, ma il pretesto per avviare nuove imprese belliche, con la nuova retorica dela “lotta al terrorismo”: Afghanistan (2001), Iraq (2003), Libia (2011).
Tutte queste imprese belliche hanno avuto contestazioni dei movimenti pacifisti, il picco delle quali avvenne a ridosso della “seconda guerra del Golfo” quando – il 16 gennaio del 2003 – milioni di persone scesero in piazza contemporaneamente in tutto il pianeta per dire “No alla guerra”, al punto che il New York Time definì questa massa umana manifestante l’altra “superpotenza”. Fu il momento di massima forza del movimento per la pace, globalmente inteso, ma anche di massima debolezza. Questa “superpotenza” non riuscì a ritardare di un giorno l’invasione pretestuosa dell’Iraq, e da lì in avanti ha protestato sempre più debolmente. Dimostrando l’inefficacia dell’impegno solo reattivo, nel momento stesso in cui ha potuto dispiegare il massimo di capacità di mobilitazione.
Questa escalation bellica – che intanto si è aggravata con il precipitare della situazione in Siria e in molta aree dell’Africa e con il nuovo impegno bellico della Russia di Putin – dentro alla quale siamo tutti invischiati, ha generato, piuttosto che sicurezza globale, quella “terza guerra mondiale diffusa” – secondo l’efficace definizione che ne ha dato papa Francesco – come testimonia anche la sequenza di immagini del “Global Peace Index” che descrive come il livello di violenza sul pianeta (indicata dai colori rosso/arancione) sia infinitamente cresciuto. A partire da precisi indicatori – tra i quali i conflitti interni, l’importazione delle armi, l’impatto del terrorismo, la spesa militare, i conflitti esterni – i ricercatori del GPI mostrano come dal 2008 (anno in cui è iniziata questa rilevazione scientifica) al 2015 tutte le retoriche securitarie antiterrorismo che hanno supportato le imprese militari si siano mostrate fallaci e il terrore globale sia – al contrario – enormemente aumentato. Del resto, lo stesso ex premier britannico Tony Blair, che insieme a George Bush jr aveva fortemente voluto l’intervento in Iraq – e la cui carriera politica è finita per le palesi menzogne che diffuse per convincere l’opinione pubblica della necessità dell’intervento militare – è stato costretto ad ammettere, poco tempo fa, non solo che quella guerra era sbagliata ma che ha favorito l’emergere dell’attuale terrorismo islamista. Esattamente ciò che le manifestazioni contro la guerra dicevano, inascoltate, mentre i caccia partivano.
Dunque per alcuni versi oggi siamo tornati ad una situazione precedente all’abbattimento del muro di Berlino, ma enormemente aggravata.
E’ ripresa una vorticosa corsa agli armamenti: dal 1991 e poi, più velocemente, dal 2001, parallelamente all’espansione delle guerre nel pianeta è cresciuta la spesa pubblica militare, che – come indica l’ultimo rapporto del SIPRI – è ormai di di circa 1.700 miliardi di dollari all’anno, superando di gran lunga il picco di spesa militare dell’epoca detta della “corsa agli armamenti” che si aggirava intorno ai 1.200 miliardi di dollari annui. Il mercato delle armi è in assoluto il business “lecito” (e no) più produttivo. Basti pensare che l’export italiano di armi da guerra – tra i più fiorenti al mondo – nell’ultimo anno è addirittura triplicato, passando da 2.9 miliardi di euro del 2014 a 8.2 miliardi del 2015. I produttori e commercianti di armi non si sono mai arricchiti così tanto dalle ultime due guerre mondiali.
Abbattuto il Muro che divideva l’Europa tra Est ed Ovest, in meno di tre decenni ne sono stati tracciati e innalzati altre decine – reali e virtuali – dentro i confini europei, stavolta tra Nord e Sud: la parola d’ordine è arrestare l’infinito flusso di profughi che questa “terza guerra mondiale” sta producendo, come accade in tutte le guerre. Il campo della vergogna di Idomeni al confine tra la Grecia e la Macedonia, dove 12.000 fuggitivi sono bloccati nel fango, l’idea italiana delle piattaforme in mare per fermare chi si salva dalle onde del Mediterraneo prima che possa toccare terra, il progetto austriaco della cortina di filo spinato al Brennero sono solo alcuni esempi del piano inclinato nel quale stiamo velocemente ricadendo. L’avanza delle destre fasciste e naziste in tutta Europa ne sono solo l’epifenomeno, che raccoglie i frutti politici dei produttori di armi, dei produttori di guerre, dei produttori di paura.
Si stanno pienamente dispiegando, dunque, quelle “tendenza naziste” che – come aveva anticipato il filosofo Giuliano Pontara nel 2006 (L’antibarbarie. La concezione etico-politica di Gandhi e il XXI secolo) – fondano la “nuova barbarie”: il mondo come teatro della lotta per la supremazia, il diritto assoluto del più forte, lo svincolamento della politica da ogni limite morale, l’elitismo, il disprezzo per il debole, la glorificazione della violenza, il culto dell’obbedienza assoluta, il dogmatismo fanatico. Di fronte a questa nazificazione della realtà, oggi più che mai vale il monito di Carlo Cassola: o la sinistra che ancora si definisce antifascista – e cerca di ricomporsi – fa dell’impegno per la pace “il terreno decisivo dello scontro tra civiltà e barbarie o rimane di destra anche se si proclama di sinistra”.
Non è più tempo di inconcludente retorica della pace o di inefficaci risposte reattive dell’ultimo momento: l’antibarbarie si costruisce agendo politiche attive di pace. Ponendo al centro dell’agenda politica i temi del disarmo, della costruzione delle alternative alla guerra – come impone la Costituzione e propone la campagna Un’altra difesa è possibile – della riconversione dell’industria bellica in industria civile. Sono tre questioni fondamentali, dalle quali deriva tutto il resto. Ossia quale futuro vogliamo costruire.