Da quello e da altri quartieri vennero allontanate dalle case oltre 1.200 persone di religione o cultura ebraica. I deportati ad Auschwitz furono 1.024 di cui 274 bambini sotto i 14 anni. Tornarono in 16: 15 uomini, 1 donna, nessun bambino.
Rinnovare oggi il racconto di quegli eventi è un dolore necessario. La rete offre molte e diverse possibilità per farlo. È nella cronaca di Giovanni Debenedetti in “16 ottobre 1943”, libro edito subito alla fine della guerra nel 1945, che ascoltiamo il grido “Oh, Dio, i mamonni!”. “Mamonni, in gergo giudio-romanesco, significa gli sbirri, le guardie, la forza pubblica”.
Una ricostruzione più recente la dobbiamo ad Alberto Angela per il quotidiano la Repubblica (15.10.21). Segnalo pure un breve video di interviste ai superstiti. L’insieme dei racconti mette in luce aspetti che hanno molto a che fare con donne e bambini, e con il rifiuto della violenza. Provo a citarne brevemente alcuni in ausilio agli smemorati e ai distratti.
Prima di tutto c’è Letizia. Scritta così, con la maiuscola, non è un sentimento, ché non c’era proprio niente da stare allegri, è il nome di una donna detta anche l’Occhialona che, facendo le pulizie a casa di un militare, seppe per prima quanto stava per accadere e lo riferì a quante più persone poté. C’è già molto nella sua figura: donna, umile, invisibile. Una smagliatura imprevista, un ingranaggio nel meccanismo dell’orrore. Li volevano tutti, gli ebrei romani, ma in 7.000 si salvarono. Allertati, fuggiti, accolti nei conventi o negli istituti religiosi come in case di persone temerarie, generose, giuste. Gli eroi inconsapevoli e quotidiani ci sono in ogni guerra, assicurano il sangue risparmiato di cui scriveva Anna Bravo.
In tanti purtroppo non credettero a Letizia l’Occhialona, o non ebbero il tempo, la possibilità di scappare. Una madre venne presa perché si trattenne a vestire il bambino. C’è sempre qualcosa da concludere prima di un congedo. C’è l’idea che si possa terminare, lasciare tutto in ordine prima di andare via. Prendersi cura della vita fa scherzi così.
Tanti non credettero a Letizia anche perché la comunità ebraica aveva pagato la salvezza al colonnello delle SS Kappler, che aveva preteso 50 chili d’oro. Lo avevano racimolato in tanti, non solo ebrei. Mi commuove questa condivisione di destini fino dove si può – nessuno di noi può presumere per sé, conoscere il proprio confine la propria resistenza il fino dove potrebbe arrivare.
Ci furono bambini che si salvarono perché donne cattoliche li reclamarono per figli, o li ricevettero dalle vere madri, e come non pensare ai piccoli che le donne afghane hanno affidato a braccia straniere per metterli in salvo in un’altra terra, lontana dal loro amore? Il sacrificio di chi dà la vita una seconda volta, rinunciando alla propria, è lo stesso in ogni terra e in ogni tempo, in ogni guerra, in ogni circostanza.
Il vuoto che segue alla violenza deve poter essere colmato. Conoscere, spiegare sono modi per quietare quella sete. Le vittime hanno diritto alle risposte sul chi, come, perché. Ricostruire la verità per certuni non è esercizio intellettuale ma urgenza di senso. Anche su fatti ormai conclusi come questi del ghetto di Roma restano sempre margini di scoperta. Di recente documenti desecretati ricavati dalle intercettazioni radio dell’Ufficio dei Servizi Strategici Britannici hanno aperto nuove prospettive di studio anche sulle deportazioni romane. Liliana Picciotto, storica della Fondazione CDEC (Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea) di Milano, ha scritto un saggio recente sui nuovi elementi di conoscenza e li riassume in questa intervista.
L’inchiesta giornalistica dell’indimenticato Sergio Zavoli è stata girata nel 1963, quando a ogni passo poteva ancora incontrare testimoni della deportazione, vent’anni non sono poi gran cosa. I suoi interlocutori mostrano il bisogno di ricordare. Parlano senza prendere fiato, riportano alla luce il bambino, la ragazzina che sono stati, salvi per miracolo. Chi ha perso i genitori insieme al lutto conosce la gratitudine per quanti a proprio rischio si sono presi cura di lui.
Accanto alla necessità della memoria c’è anche quella, uguale e contraria, dell’oblio. Da “Gente di Roma” di Ettore Scola si ritrova in rete un frammento in cui una passante, assistendo alle riprese che riproducono la razzia, urla e si accascia tra lo stupore di molti. Riattivazione del trauma, la chiamano gli studiosi. Il numero che compare tatuato sul polso spiega più di un saggio universitario. Eppure, contrastiamo la rimozione a favore delle generazioni future. “Meditate che questo è stato”, scriveva Primo Levi. Meditare è di più che orecchiare, e non sa di naftalina.
La Giornata della memoria non era stata ancora inventata quando in quinta elementare il mio maestro coinvolse la nostra e altre classi in una ricerca complessa sulla comunità ebraica di Ferrara, la nostra città. Al nostro gruppo toccò la visita alla sinagoga e alle vie del ghetto. Imparammo i riti e le feste in quella religione, i piatti tradizionali, il ruolo dei bambini e molto altro con la nostra intervista al rabbino e ad alcuni membri della comunità. Il filo diretto che ci faceva simili a quei bambini cacciati da scuola, dalla città, dall’infanzia e dalla vita era intuitivo. Non so se qualcuno tra i miei compagni di allora abbia abbracciato un pensiero razzista o antisemita, vorrei credere di no.
Anche in tempi più ristretti, contro ogni retorica si levano le voci dei testimoni. Straordinari uomini e donne trasmettono da decenni l’esperienza dei campi di sterminio. Stanno scomparendo, la loro parola ci mancherà e mancherà soprattutto agli adolescenti che non potranno ascoltarla. Ho in mente il silenzio teso e commosso con cui assemblee di ragazzi hanno ascoltato Elisa Springer, Liliana Segre, Tullia Zevi e tanti altri. Mai hanno cessato di dare l’allarme: quello che è accaduto può ripetersi, succede già oggi.
Ritrovo tra gli altri gli articoli di Nello Scavo, inviato di “Avvenire” per raccontare la disperazione dei migranti al confine polacco, o le testimonianze dell’orrore libico e del mare che segue. La gratuità, l’iniquità, la ferocia rendono la violenza massimamente insopportabile. Tipicamente lo è quella sui bambini. Tale è l’innocenza, che sporcarla ci risulta ripugnante, quasi che i bambini ci significassero la vita stessa. Allora penso a come sarebbe necessario percepire quella stessa sacralità in ogni vita per quanti siano i suoi anni. Essere uno madre all’altro, per dirla con Aldo Capitini.