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Oltre il sistema della violenza

DiCarlo Bellisai

Nov 20, 2022

Viviamo in un mondo violento. Le guerre hanno scandito con continuità l’orologio della Storia dei popoli. Guerre di espansione, guerre per creare imperi, guerre per interessi mercantili, guerre per controllare il popolo. L’evento più catastrofico e negativo che si possa affrontare è certamente la guerra.

Non è paragonabile al terremoto, né alla furia della pioggia o del vento, alle alluvioni, agli uragani. Perché voluta dagli uomini contro altri uomini quindi, sotto questa lente d’ingrandimento, cannibale e suicida.

La logica della guerra è simile a quella di un virus: autoriprodursi infettando. Di fatti la guerra, lasciata a sé stessa, non fa che esacerbarsi, putrefarsi e incancrenirsi e, più dura, peggiori saranno le amputazioni necessarie. Sempre che a qualcuno non venga la bella idea di iniziare i fuochi d’artificio nucleari. In fondo siamo così vicini all’apocalissi climatica, che la guerra atomica potrebbe perfino essere vista come una clemente eutanasia, per un’umanità malata terminale.

Tuttavia la maggior parte delle persone non pensano a questa imminente potenziale catastrofe planetaria, alcune perché hanno smesso di pensare oltre il proprio microcosmo, altre perché non ne hanno il tempo, schiacciate fra i ritmi del lavoro, del pendolarismo, delle necessità di base. Tutte però sperimentano quotidianamente l’impatto con altre forme di violenza, forse non tanto estreme, certo meno eclatanti, ma comunque rilevanti e spesso con conseguenze sullo sviluppo psico-fisico e sulla qualità della vita di chi le subisce. Conosce bene questa violenza strutturale chi è stato escluso dal lavoro, chi lavora in condizioni precarie e di sfruttamento, tutte le lavoratrici e lavoratori sotto ricatto, chi opera in condizioni di pericolo e insicurezza, quanti sono emarginati dalla società, esclusi, decretati inutili, fatti scarti.

Ciascuno di noi ha conosciuto e conosce questo tipo di violenza, che fa parte della struttura della nostra società: ha i suoi cardini nelle istituzioni governative e nella burocrazia, ma si diffonde capillarmente nel tessuto sociale. E’connessa profondamente al sistema economico capitalistico, che produce diseguaglianze, emarginazioni e nuove schiavitù. Viene convogliata attraverso le tecnologie che producono un’escalation di violenza invisibile, rivolta da un lato alle nuove generazioni, attraverso l’uso dei canali social come sostitutivo della realtà, con i telefonini disponibili spesso anche ai bambini, dall’altro agli anziani che non riescono più a stare dietro alle nuove applicazioni imperanti e vengono emarginati. Violenza invisibile, al limite della soglia di sopportazione. Ma non registrata. E poi ci stupiamo dell’emergere della rabbia incontrollata, dell’atto crudele incomprensibile, quando già il sistema semina sul terreno della follia.

Questa è la violenza strutturale del sistema che ci ingloba, che ci emargina o ci censura. Ma dobbiamo fare i conti innanzi tutto con la violenza culturale quotidiana, che è anche quella dei rapporti con gli altri. Quanti conflitti vengono covati in famiglia? Quanti quelli fra vicini? Tracciamo i nostri confini, le nostre frontiere già nel quartiere? Violenza è anche escludere, allontanare, non considerare. Violenza è non vedere, rendere gli altri invisibili.

Accoglienza e diffidenza si scontrano, nel conflitto sociale, ma spesso anche nel conflitto interiore. Le diversità diventano differenze, poi distanziamenti, quindi rigide divergenze, conflitti che, se non vengono curati, possono generare piccole guerre, che allargano la violenza nel tessuto sociale. Perché non investiamo allora nella cura? Nella prevenzione e nella gestione costruttiva e nonviolenta dei conflitti? Sarebbe logico, se si volessero migliorare i rapporti umani. Invece si aumentano le spese militari. Si sperimentano nuove armi, le grandi aziende multinazionali degli armamenti esultano coi fatturati che salgono a picco.

Ci comportiamo più o meno come il medico che bombarda il sintomo coi farmaci, senza badare alla ricerca della causa del male, senza curarsi della prevenzione.

Per quanto il modello della sopraffazione lo pervada, il mondo non è solo violento: esistono l’amore, l’empatia, l’aiuto, l’arte, la filosofia, la bellezza. Riusciamo a trovare sprazzi di felicità, convivenze dinamiche e serene, isole di collaborazione reciproca, comunità che si riconoscono, esperienze di cooperazione. Realtà che vanno valorizzate, affinché si moltiplichino.

Se è necessaria la critica del presente e la più ferma opposizione al fratricidio delle guerre, non lo è da meno la ricerca, nel qui e ora, di un progetto costruttivo, che preveda gli strumenti per una società che tenda alla nonviolenza, alla ricerca di un equilibrio dinamico.

Occorrono allora degli strumenti validi e che siano sempre in sintonia con i fini. Questi strumenti in parte sono già stati sperimentati, come la disobbedienza civile, la marcia, il boicottaggio, in casi estremi anche il sabotaggio. Vanno ripensati nel contesto odierno e nei territori, ma soprattutto praticati, là dove è possibile: solo attraverso le verifiche del vissuto si può dare forma ad un progetto concreto, diverso e specifico per ogni territorio, ma sempre improntato sulla solidarietà reciproca, sulla responsabilità individuale, sulla partecipazione diretta.

Questa forza costruttiva deve manifestarsi, affinché si apra la possibilità di un futuro senza guerre contro la natura e tra gli esseri umani. C’è chi dice che sia già troppo tardi. Ma dobbiamo smetterla di speculare su un futuro che non ci appartiene.

E’ qui, nel presente, che si gioca la sfida fra catastrofe e trasformazione.

Carlo Bellisai

Di Carlo Bellisai

Sono nato e vivo in Sardegna. Mi occupo dai primi anni Novanta di nonviolenza, insegno alla scuola primaria, scrivo poesie e racconti per bambini e raccolgo storie d’anziani. Sono fra i promotori delle attività della Casa per la pace di Ghilarza e del Movimento Nonviolento Sardegna.

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