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Oltre l’equivocità del termine “nonviolenza”

DiEnrico Peyretti

Mag 28, 2014

La prima causa di malacomprensione mi sembra che sia il nome stesso “nonviolenza”. Esso suona negativo e illusorio. Sembra dire che questa auspicata forma di vita e di impegno sia pura da ogni violenza e possa costituire una proposta già pronta di vita sociale libera da ogni violenza: fisica, militare, armata, economica, strutturale, mediatica, culturale, ….

La parola, i simboli, l’entusiasmo dei “nonviolenti” persuasi finiscono per disilludere sempre più i “perplessi”, che constatano amaramente la vasta e profonda presenza della violenza, in tante forme, nella vita umana. Essi, così, finiscono col giudicare ingenua, illusoria e ingannevole, a causa di superficiale integralismo, la proposta della cultura nonviolenta.

Il nome, anzitutto. L’originale termine gandhiano è satyagraha, che già qualcuno (anch’io) ha proposto di rendere in italiano più fedelmente alla lettera e al senso, con le parole “forza vera” (eventualmente unite: “forzavera”). Il movimento gandhiano, senza pretesa di offrire un sistema metafisico, giudica che gli esseri umani possono effettivamente vivere in un modo più “vero”, cioè meno offensivo e doloroso, più mite, più giusto, più felice, e quindi più “veramente”, più autenticamente umano. Tutti sentiamo che qualche aspetto prezioso della nostra qualità umana viene falsificato o demolito nelle pratiche e nelle strutture violente. Tutti tendiamo, per quanto possibile, ad umanizzare la nostra umanità, ad incivilire la nostra società (che vuol dire capacità di convivere nella stessa città, civitas, polis, mondo sempre più comunicante).

L’idea di forza è positiva, non è affatto sinonima di violenza, anche se il linguaggio corrente le confonde spesso. La forza è una qualità della vita. La violenza è offesa della vita. Anche nella società umana un aspetto di forza legittima, pubblica, non violenta, è necessario alla convivenza. Come è necessario nell’educazione dei bambini, e un genitore vede molto bene, nel trattare il suo bambino, la differenza essenziale tra forza e violenza.

Così, nella società grande, la funzione di polizia non è assolutamente quella dell’esercito e della guerra.

La polizia legale e corretta riduce la violenza, l’offesa alla vita e alla libertà, usando la forza necessaria, a partire dal minimo utile e sufficiente: il delinquente non è un nemico da sopraffare o distruggere, ma un membro della società da fermare e correggere perché sta violando regole importanti di convivenza.

L’esercito e la guerra accrescono la violenza, perché, per vincere il confronto militare, occorre essere più violenti e distruttivi del nemico. La guerra, anche quando sembra necessaria e migliorativa (come fu la seconda guerra mondiale), finisce con l’accrescere la massa comune di violenza e la sofferenza dei più deboli. La realtà dimostra che non è la guerra il modo valido per liberare i deboli dall’oppressione, senza conseguenze negative, a volte peggiori. Per fermare Hitler è mancata la forza umana e morale, intelligente, politica, all’inizio della sua prepotenza. La crescita della efficienza armata per cause umane ritenute giuste, ha condotto alla presenza ormai ineliminabile di armi totalmente distruttive, inusabili ma pericolosissime. La logica della forza distruttiva, dal pugno di Caino ad oggi, ha distrutto la logica della convivenza umana, enormemente di più di quanto abbia difeso dei diritti umani. La storia della guerra ha distrutto la praticabilità della guerra per causa giusta. In questo senso, le armi non difendono, ma accrescono il pericolo anche per chi le usasse con buone ragioni e col diritto-dovere di difendere se stesso o altri, ma sbagliando nel vedere la difesa nel mezzo armato. C’è una forza umana, personale e collettiva, che può organizzarsi come potenza difensiva e non offensiva. La storia l’ha dimostrata spesso efficace, anche se finora non è stata socialmente organizzata.

La cultura politica della “forza vera” (nonviolenza) ha dunque l’obbligo di proporre, realizzare, praticare, forme alternative ed efficaci di difesa dei diritti umani offesi, superando e archiviando il mezzo della guerra, della difesa armata.

Il confronto conflittuale (in sé positivo, perché dinamizza rapporti e sistemi) diventa violento se si innesca l’escalation “Maggiore-minore”, cioè se una parte cerca di avere dominio, prevalenza, impero, sull’altra, invece della sana, libera competizione-cooperazione. Il “minore” cercherà allora, in quella logica, di farsi “Maggiore”, e la corsa al peggio è avviata.

Così, in questa situazione, il miglioratore del mondo umano è colui che, con iniziativa unilaterale creativa, coraggiosa, positiva, innovativa, abbassa la propria capacità di offesa e minaccia (la minaccia è già un’offesa) e invita-sfida l’altra parte a fare lo stesso. Certo, c’è rischio, ma forse l’umanità è assolutamente capace solo di sopraffare e non di convivere? Quanto più rischio c’è nell’armamento che nel disarmo! Chi apre la strada della convivenza è un realista creativo. Al punto massimo sta chi decide per sé che è meglio essere ucciso che uccidere, ma su questa strada sono possibili molti gradi di azione costruttiva e realistico-inventiva.

Del resto, non si tratta di novità sognate da poco: «La nonviolenza è antica come le montagne», ed è quanto di meglio e di più umano abbiano prodotto le sapienze vissute di tutti i popoli e civiltà. Invece, il pessimismo antropologico accentuato affida i rapporti umani alla logica della violenza, pur se sembra deprecarli.

La filosofia politica della “forza vera” (nonviolenza) appare agli osservatori critici e perplessi, ma non abbastanza attenti, come un entusiastico mito risolutivo, come se dicesse: «Col nostro spirito, con le nostre azioni, ecco vicina la vittoria del bene!». Certo, può anche presentarsi con questa ingenuità, la cultura politica forzaverista, ma nessuno può davvero ignorare che essa non consiste nell’entusiasmo bello e generoso – che pure è una qualità umana e un tesoro sociale – di qualche adolescente. Anzi, ogni osservatore serio deve sapere che quella cultura è invece una storia profonda di pensiero filosofico, antropologico, psicologico, morale, spirituale, politico, economico; è una teoria ed esperienza del conflitto umano a tutti i livelli (il conflitto umano vitale, promotore, è l’antitesi della guerra mortale); è una storia di pratiche sociali e politiche in buona parte efficaci, e sicuramente meno umanamente costose delle lotte armate.

Chi valuta la cultura forzaverista (nonviolenta) come una ideologia senza realismo non conosce davvero abbastanza il lavoro di pensiero e di verifica fattuale di questo sforzo di emancipazione umana, che si inserisce in tutta dignità nel cammino di umanizzazione e civilizzazione della nostra ambivalente specie.

Ciò che appare dall’esterno ai perplessi è, troppo spesso (anche per colpa dei “nonviolenti” poco autocritici), una forma di sicurezza assoluta, di dogmatismo e assolutismo morale. Invece, il primo atteggiamento di pensiero insegnato da Gandhi (maestro celebrato, ma non sempre ben conosciuto), è il suo insistente “fallibilismo”, un cammino di continua autocorrezione (anche per le dure lezioni della realtà, che egli non ha mai trascurato), di approssimazione ad un obiettivo di valore: la vita senza offesa. Ciò che dichiaratamente significa tendenza asintotica allo zero di violenza, mai di fatto raggiungibile nella storia: anche mangiare l’insalata è una piccola violenza.

Nel difendere la forzavera (nonviolenza) da accuse nate da malintesi, sarebbe inutile rinviare ancora una volta a testimoni, bibliografie, autori, opere, storie, centri-studi, anche ai modesti libri che noi abbiamo scritto salendo sulle spalle dei giganti, se non ci fosse la disposizione positiva, il desiderio ardente di un mondo più giusto, l’ostinazione della speranza attiva, ma ci fosse solo una ragione fredda, impressionata dal male del mondo, che gela la volontà sperante e attiva, la fiducia nella correggibilità e docibilità dell’essere umano: questo è tutt’altro che ingenuo ottimismo, ma fede attiva, e azione storica. La storia non è tutto, specialmente per una spiritualità che contiene un’apertura escatologica, ma è il luogo del nostro attuale vivere e rispondere alla vocazione della vita.

Intendere e praticare la nonviolenza come “forza vera” è lavorare per congiungere, senza alcun integralismo, la vita con la verità della vita.

Enrico Peyretti, 27 maggio 2014

Di Enrico Peyretti

Enrico Peyretti (1935). Ha insegnato nei licei storia e filosofia. Membro del Centro Studi per la pace e la nonviolenza "Sereno Regis" di Torino, del Centro Interatenei Studi per la Pace delle Università piemontesi, dell'IPRI (Italian Peace Research Institute). Fondatore de il foglio, mensile di “alcuni cristiani torinesi” (www.ilfoglio.info). Collabora a diverse riviste di cultura. Gli ultimi di vari libri (di spiritualità, riflessione politica, storia della pace) sono: Dialoghi con Norberto Bobbio su politica, fede, nonviolenza, (Claudiana, 2011); Il bene della pace. La via della nonviolenza (Cittadella, 2012). (peacelink.it/peyretti)

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