di Clarissa Caputo*
Dalla funzione psichica alla funzione di apprendimento, sino a quella di riproduzione del ricordo passato, i sistemi della memoria si interconnettono nelle diverse esperienze che attraversano il tempo insieme alla persona. La memoria storica identifica, nello specifico, un’operazione attiva agita dalla coscienza, una selezione che opera attraverso il ricordo tramite la quale alcuni fatti assumono differenti interpretazioni e rappresentazioni.
In altre parole, la memoria storica è testimonianza, la potremmo immaginare come un diario o un archivio che racchiudono in sé il passato e lo spirito di tutti i popoli, delle loro culture, dei loro sacrifici. Per questa ragione essa si pone alla base dell’identità di ognuno di noi, e la costituzione di una memoria condivisa contribuisce a far crollare quei paradigmi su cui sono strutturate visioni della realtà apparentemente inconciliabili, spesso fondate su pregiudizi culturali limitanti.
La comprensione dei cambiamenti che attraversano la nostra epoca e l’analisi critica degli avvenimenti che ne sono alla base non è un processo scontato né perseguibile unilateralmente, tuttavia rappresenta la chiave per l’equilibrio fra i popoli che convivono all’interno dei medesimi confini nazionali. In tal senso, la storia e il modo in cui gli avvenimenti vengono interpretati acquista di fatto un ruolo fondamentale, specie considerando che le interpretazioni storiche mutano a seconda della cultura e del contesto di provenienza.
La memoria nei processi di costruzione di pace
I popoli che oggi abitano il mondo conservano radici culturali che ne definiscono i modi di agire e di pensare, esprimendo tradizioni e costumi che si sono modificati nel tempo alla luce dei fenomeni migratori e del processo di globalizzazione. In un contesto di crescente multiculturalità e di conflitti sociali ed etnici che minano la stabilità dell’equilibrio sociale, la storia può essere utilizzata per rafforzare tali conflitti o, al contrario, per promuovere la costruzione della pace.
La maggior parte delle società che escono da una condizione di conflitto corre il rischio, nelle mani di abili manipolatori etnici, che gli eventi passati vengano strumentalizzati al fine di evidenziare torti storici, umiliazioni e sfruttamenti, così da mobilitare le persone a scopi politici. All’indomani di un conflitto, una società cerca di riscrivere le narrazioni del suo passato, incluso il più recente: in tale prospettiva la storia e la memoria collettiva, possono aiutare in questo difficile compito. Nei processi di costruzione della pace, la memoria e il lavoro storico possono contribuire a prendere in considerazione una varietà di narrative e verità complesse (politica della memoria dopo la violenza), possono aiutare i sopravvissuti e sostenere gli sforzi di giustizia transitoria, agire a favore dei processi di riconciliazione e preparare la strada per le generazioni future e prevenire la violenza.
Tuttavia, il processo di ricostruzione di una memoria storica condivisa è spesso contraddittorio per via delle molteplici narrazioni e “registri di verità” che coesistono all’interno della stessa comunità, e che non necessariamente coincidono. Lo storico statunitense Charles S. Maier evidenzia che se da un lato l’elaborazione di una narrazione condivisa risulta prioritaria per ricostituire un equilibrio interno alla società, dall’altro questo processo non può ridursi a insistere banalmente sugli aspetti in comune tra le differenti rappresentazioni, sminuendo così la differenza. Al contrario, il processo di peacebuilding che agisce attraverso la memoria si deve porre l’obiettivo di ascoltare, testare e infine rendere pubbliche le rispettive sotto-narrazioni o storie parziali. Pertanto la memoria collettiva non deve essere necessariamente armonica, ma deve permettere che le storie particolari dei gruppi sociali che la definiscono siano intrecciate linearmente l’una accanto all’altra, in modo che l’ascoltatore attento possa seguirle distintamente, ma simultaneamente.
La memoria è un atto di riconoscimento condiviso
Vi sono circostanze in cui la storia e il lavoro commemorativo possono partecipare a un processo di riabilitazione sia per i sopravvissuti che per le vittime. In tal senso il riconoscimento pubblico e il ricordo delle atrocità diventano un atto di memoria collettiva che, attraverso un processo di simbolizzazione, può aiutare nella guarigione i sopravvissuti alle violazioni dei diritti umani. Non solo, il pubblico racconto delle atrocità vissute o commesse all’interno di un popolo è un atto di riconoscimento collettivo che contribuisce a ripristinare la dignità del defunto, e consente ai sopravvissuti e alle famiglie di iniziare il processo di lutto: è per questa ragione che le “riparazioni simboliche” devono far parte di una strategia di riparazione olistica e dovrebbero integrare altre forme di memorizzazione.
Come evidenziato da Ereshnee Naidu-Silverman, Senior Director per la Global Transitional Justice Initiative (il programma di punta della “Coalizione sulla Giustizia transizionale”), il riconoscimento del valore della memoria in questo campo è esemplificato dalle esortazioni di vari rapporti della Commissione di Verità. Ne sono pratiche e recenti dimostrazioni le raccomandazioni mirate alla riconciliazione cilena, perseguita tramite azioni di riparazioni simboliche che hanno preso la forma di memoriali, siti di memoria e altri sforzi artistici/culturali. Allo stesso modo, la Commissione sudafricana per la verità e la riconciliazione (TRC) ha suggerito al governo di sostenere un lavoro commemorativo per “ripristinare la dignità umana e civile” e consentire ai sopravvissuti di fare i conti con il passato. Sulla stessa linea anche la Commissione del Guatemala, che ha raccomandato che lo stato e la società commemorino le vittime attraverso giorni predefiniti, tramite la costruzione di monumenti pubblici a livello nazionale, regionale e comunale e la ridenominazione delle strutture pubbliche in onore delle vittime.
Il caso del Kenya: ‘unità nella diversità’
La storica dell’Africa Lotte Hughes ha condotto una serie di ricerche incentrate proprio sul ruolo della memoria nella costituzione di un’identità condivisa per il Kenya. Nel 2014 il Kenya ha celebrato i 50 anni di indipendenza dalla Gran Bretagna, dalla quale acquisì ufficialmente autonomia il 1 giugno 1964 con l’entrata in vigore della prima Costituzione. In diverse ricerche condotte dalla Hughes emerge chiaramente la complessità culturale del Kenya, che come la maggioranza degli stati africani ha vissuto una segmentazione arbitraria del territorio, nel quale coesistono una varietà di tradizioni culturali e linguistiche differenti.
La Repubblica del Kenya si è data come scopo la costituzione di un’identità nazionale tramite l’unione di questi segmenti etnici (“unità nella diversità”, come recita il motto nazionale per l’educazione), ma rimane un paese che soffre di una iniqua distribuzione del potere e in cui i suoi rappresentanti continuano a utilizzare strumentalmente l’appartenenza etnica per creare illazioni sociali e politiche.
Nello stesso 2014, la Hughes in collaborazione con i ricercatori Annie Coombes e Karega-Munene, ha pubblicato l’indagine “Gestire il patrimonio culturale, creare la pace: storia, identità e memoria nel Kenya contemporaneo”, che si incentra sul significato di patrimonio culturale per i keniani e sul ruolo che esso gioca nella costruzione della pace e della riconciliazione. Gli studiosi hanno voluto comprendere quali parti della storia i cittadini desiderano commemorare, che cosa viene “dimenticato” e perché: un percorso di analisi nei traumi e nei conflitti civili che hanno attraversato la nazione e che affondano le radici nel retaggio dell’era coloniale. Dal 2014 la Hughes ha anche intrapreso un nuovo progetto di ricerca di durata triennale, intitolato “I diritti culturali e la nuova costituzione del Kenya”: la prima indagine volta a documentare e analizzare l’impatto delle disposizioni sui diritti culturali nella nuova Costituzione del Kenya sulla società keniana e sul suo patrimonio culturale, al fine di produrre analisi, raccomandazioni politiche e dati empirici che possono essere utili a livello locale e internazionale.
Prevenire la violenza: l’educazione alla storia nelle generazioni
Le memorie delle atrocità precedenti vengono spesso trasmesse attraverso il dialogo intergenerazionale all’interno del contesto familiare: i processi di memorizzazione e di analisi critica della storia hanno l’obiettivo di supportare questa discussione insegnando alle nuove generazioni a mediare tra passato e presente. Uno dei rischi principali che si corre dopo un conflitto, è che il silenzio sul passato si diffonda nei circoli familiari e fra gli adulti della comunità, rendendo ancora più necessario, nell’immediato dopo la violenza, lavorare sulla costituzione di un’identità condivisa intergenerazionale che permetta di dare senso alla propria vita.
Molti ricercatori hanno evidenziato come la storia, troppo spesso, venga presentata come un concetto rigido che induce i bambini a credere che i loro ruoli e il loro posto nella storia siano immutabili, non possano essere sfidati né tanto meno cambiati. Al contrario agenzie di formazione primaria come la scuola dovrebbero stimolare un’educazione alla storia che attivi un processo di simbolizzazione e identificazione, quei processi che consentono l’apertura ai diversi sistemi di verità e lavorano per la loro conciliazione.
In particolar modo, i ricercatori Bush e Saltarelli sostengono che le interpretazioni e le spiegazioni del passato non possono essere trasmesse automaticamente da una generazione all’altra, ma richiedono un processo di ampliamento del senso del Noi che serve alla reinterpretazione, da parte dei giovani e di coloro che erano lì, ma non sapevano cosa stava succedendo. In definitiva, è solo così che può avvenire, anche nelle nuove generazioni, quel riconoscimento reciproco essenziale per avvicinarsi, comprendere la complessità del passato e la molteplicità delle interpretazioni che costituiscono la cosiddetta “memoria collettiva”.
* Studentessa, gruppo giovani Movimento Nonviolento
PER APPROFONDIRE
Kenneth D. Bush and Diane Saltarelli, The Two Faces of Ethnic Conflict: Towards a Peacebuilding Education for Children, Firenze, UNICEF Innocenti Research Center, 2000
Charles S. Maier, Doing History, Doing Justice: The Narrative of the Historian and of the Truth Commission, in Truth v. Justice: The Morality of Truth Commissions, ed. by Robert I. Rotberg and Dennis Thompson, Princeton University Press, 2000
Annie E. Coombes, Lotte Hughes, and Karega-Munene, Managing Heritage, Making Peace: History, Identity and Memory in Contemporary Kenya, London 2014
Cultural Rights and Kenya’s New Constitution, https://katibaculturalrights.com/