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Papà Mario e la sua lotta

DiRoberto Rossi

Ago 20, 2019

Mario era un uomo dai modi gentili e accoglienti. Non amava le luci della ribalta, manifestava talvolta emotività al cospetto delle telecamere, davanti alle quali tuttavia non è mai arretrato pur di portare avanti la sua lotta. Quella lotta, per la giustizia e la verità sull’omicidio del figlio, che non è mai stata slegata dal messaggio politico di liberazione dalla mafia, il segno palmare di come “l’antistato” – come lo chiamava lui – lungi dall’essere un’entità mai del tutto definita, tangibile, fosse in realtà la più potente causa dei dolori singoli e collettivi, umani e politici, del Sud del Paese.

In questa prospettiva, la guerra di Mario incarna uno dei sensi profondi della nonviolenza, il valore della singola vita mai slegato dal contesto collettivo, la precisa equazione che vede crescere l’emancipazione del singolo in proporzione al perfezionamento del progresso della società. In una chiave nonviolenta, d’altra parte, vanno lette anche le tecniche usate da Mario per manifestare la sua verità: la curata manifattura di manifesti e murales; la performance (i guanti bianchi sporchi di rosso, il cappello in testa, il fisico asciutto, lo avvicinavano alla figura di un mimo, silente e straordinariamente comunicativo); il mezzo appariscente – un vecchio maggiolone giallo – col quale si spostava per raggiungere il tribunale per i suoi mille (la cifra non è iperbolica) sit-in; la costruzione di reti di lotta antimafia; l’educazione alla legalità nelle scuole; la competizione elettorale; il continuo richiamo tramite esposti, lettere, pubbliche prese di posizione, alle istituzioni locali affinché si costituissero parte civile nei processi di ‘ndrangheta, e a quelle nazionali affinché si colmassero i vuoti legislativi del procedimento penale e si riscrivessero le regole che troppo spesso hanno agevolato facili scarcerazioni o pene blande per chi – come diceva lui – aveva gettato “nell’ergastolo del dolore” le famiglie delle vittime di mafia.

Quello della certezza della pena era il tema cardine dell’impegno civile di Mario. Anche perché Tommaso Costa, il mandante dell’omicidio di Luca Congiusta secondo le sentenze dei primi due gradi di giudizio, era uscito di galera prima dell’agguato grazie all’indulto. E, stando alle evidenze processuali, aveva anche potuto riorganizzare la sua cosca, preparandosi a erodere potere e territorio al potentissimo e incontrastato clan dei Commisso di Siderno.

In questo contesto si inquadra la morte di Luca. Punito perché si era opposto alla richiesta di pizzo perpetrata ai danni del suocero dal clan Costa, nel territorio dei Commisso. Le indagini si mossero immediatamente, come da copione in questi casi, nell’ipotesi del movente passionale, poi nelle attività della famiglia Congiusta. Dovette aspettare tre anni, papà Mario, perché si aprisse il processo che vedeva alla sbarra Tommaso Costa. A distanza di dieci anni, nell’aprile del 2018, dopo la condanna all’ergastolo ribadita in appello, Costa è assolto in Cassazione: l’omicidio Congiusta rimane senza colpevoli. Gli ‘ndranghetisti festeggiano, Luca è ucciso per la seconda volta – dichiarano i Congiusta – dalla mafia e dallo Stato. Per uno strano gioco della storia, la sentenza del caso Congiusta è stata emessa lo stesso giorno di quella della trattativa Stato-mafia. Nello stesso giorno in cui lo Stato chiude il processo a se stesso; il giorno in cui è smascherato giudizialmente quel patto tra Stato e mafia che ha determinato i noti avvenimenti che hanno sconvolto la vita civile e politica di questo Paese, nella più remota provincia, passa in giudicato una sentenza che provoca di fatto la rottura di un altro patto, ben più importante perché è quello che sta alla base del vivere civile: la giustizia come collante tra Stato e cittadino, il rapporto fiduciario tra popolo e autorità. Fondamentale perché è alla base della lotta alla mafia, che sull’impunità genera il suo potere e amplia il suo consenso.

Ancora una volta i destini politici del Paese si intrecciano alla vicenda umana: da lì a poco papà Mario si ammalerà in modo irreversibile, il movimento antimafia perderà uno dei suoi interpreti più impegnati.

Di Roberto Rossi

L'interesse per il rapporto tra mafia e informazione e per il tema della censura violenta – sviluppato attraverso i linguaggi della saggistica, del teatro e del giornalismo – gli ha fatto ultimamente incontrare gli amici della nonviolenza, per i quali ha curato la rubrica Mafie e Antimafie su “Azione Nonviolenta”. Ha pubblicato con “Problemi dell'informazione” (Il Mulino), ha partecipato alla fondazione di Ossigeno per l'informazione, l'osservatorio sui cronisti minacciati e le notizie oscurate con la violenza, ha scritto il libro “Avamposto” (Marsilio), sulle storie dei giornalisti minacciati dalla mafia in Calabria. Si interessa di teologia.

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