La leggera sospensione di chi ha per le mani un tesoro e ne vuole parlare ma teme di non conoscere le parole giuste. È questa l’atmosfera che ho respirato a Casarsa (Pordenone) il 27 gennaio scorso, nel bel pomeriggio trascorso con il gruppo locale del Movimento Nonviolento che si prepara a incontrare gli studenti delle scuole secondarie di secondo grado con attività sulla nonviolenza e contro la guerra.
I componenti del gruppo sono per la maggior parte obiettori di coscienza che hanno rinvigorito il loro impegno dopo l’invasione russa in Ucraina; in questi decenni hanno continuato una propria ricerca personale nel solco dell’obiezione, chi nella cooperazione, chi nella formazione, nel volontariato, nella tutela dei diritti. Con loro ci sono donne impegnate da lungo tempo nella formazione alla nonviolenza e sui diritti umani, e alcuni insegnanti interessati e preparati. Nell’insieme radunano una ricchezza non comune di esperienze e competenze, anche professionali, e certo non hanno bisogno di un libretto di istruzioni. Eppure, chi non insegna si sente un po’ arrugginito non frequentando da anni le aule scolastiche. Proprio per questo ci troviamo.
Abbiamo scoperto che le proposte alle scuole elaborate dal gruppo friulano, e quelle pensate dal gruppo locale di Ferrara di cui faccio parte, non sono sovrapponibili nei contenuti, più indirizzate ai conflitti macro le prime, e alla violenza sperimentata dai ragazzi le seconde. La diversità, che non è voluta da noi (gli insegnanti ferraresi potevano scegliere moduli più specifici sull’obiezione alla guerra, ma hanno preferito orientarsi verso la gestione dei conflitti, la violenza di genere, il bullismo…) ci interpella rispetto ai bisogni della scuola. Un confronto ulteriore, allargato magari ad altre realtà del Movimento Nonviolento che si impegnano nella formazione, potrà essere fertile in futuro. Ci accontentiamo per il momento di concentrarci sulle questioni di metodo, che sono trasversali.
Il lavoro in sottogruppi che propongo in apertura si concentra su alcune questioni di fondo: elementi di forza e di debolezza delle proposte per le scuole; opportunità e limiti del mondo della scuola dal punto di vista didattico o, invece, relazionale; indicatori di successo che potrebbero rassicurarci sul buon andamento degli incontri e timori che portiamo con noi quando pensiamo di entrare in classe.
Nella ricca discussione che ne scaturisce identifichiamo alcuni aspetti particolarmente delicati. Uno di questi è la distanza generazionale tra noi e i giovani che incontreremo, con la paura di non capirsi, di non parlare la stessa lingua. Le esperienze più recenti che alcuni di noi possono citare sono rassicuranti da questo punto di vista. Invito i presenti a portare agli adolescenti la loro storia insieme a quella con la S maiuscola di cui sicuramente parleranno. La credibilità degli adulti non è garantita, per ragazzi e ragazze che si sentono tante volte poco importanti, inascoltati, oppure trattati come puri consumatori e non come giovani cittadini pensanti e in crescita. Testimoniare la concretezza di una vita orientata alla nonviolenza credo aiuti a costruire una base di fiducia importante per veicolare anche le analisi teoriche o gli elementi geopolitici: non come un sapere in più da mandare a memoria, ma come contenuti vivi che noi per primi sentiamo nostri, perché ci aiutano a orientarci nel nostro tempo. In quest’ottica lo scarto nel linguaggio, l’asimmetria, la differenza di età non deve, a mio avviso, spaventare. I giovani sanno e possono confrontarsi con gli adulti, da una vita si allenano a farlo. Più che fingersi ragazzini per cercare un legame con loro, possiamo portare onestamente noi stessi e avviare un dialogo su un terreno di autenticità.
Farlo a scuola, in spazi e tempi determinati e necessariamente brevi, se da un lato è una straordinaria occasione per noi, per venire a contatto con giovani di ogni provenienza socioculturale, liberi dal target che si definisce nell’adesione a un’associazione o a una chiesa… dall’altro fa nascere il timore che il laboratorio sulla nonviolenza sia disconfermato dalle contraddizioni della scuola. Una istituzione che si dice aperta, inclusiva, attenta a valorizzare le diversità, ma di fatto sottopone i ragazzi a verifiche e spinge alla competizione. Ulteriormente ci chiediamo se il probabile inserimento di queste attività nei percorsi di educazione civica consentirà un migliore svolgimento o renderà i giovani meno spontanei al pensiero della successiva valutazione. Proviamo allora a immaginare che le proposte siano riviste anche sotto questo profilo e trasformate in opportunità di apprendimento cooperativo, nelle quali il voto – se voto ci deve essere – premi il coinvolgimento, la collaborazione, l’aiuto reciproco e, in sintesi, competenze differenti da quelle comunemente osservate.
Dal punto di vista metodologico concordiamo su alcuni punti: prediligere il laboratorio alla lezione frontale; stringere un patto chiaro con i docenti prima di incominciare, e farci raccontare da loro le dinamiche della classe per essere pronti ad affrontare eventuali difficoltà; cercare nell’insegnante un rinforzo discreto ma presente; mostrare ai ragazzi un ascolto realmente interessato e che dia valore alle loro idee, ai loro interventi; infine, rinviare a materiale di approfondimento che gli studenti possano utilizzare in seguito, da soli o con la guida dei professori, affinché l’incontro con l’esperto sia un seme di cui prendersi cura nei mesi a venire.
È proprio qui che ci pare di riconoscere il requisito per valutare il successo delle attività. Usciamo dalla classe soddisfatti se ci sembra di aver sollecitato la curiosità dei ragazzi e se anche il docente in seguito ne coglierà i segnali. Se gli studenti ne parleranno con gli amici o in famiglia, se faranno autonome richieste di prosecuzione, se continueranno in un cammino di ricerca.