Lo si vede bene a partire dall’immigrazione. Potrebbe essere un’opportunità per vecchi e nuovi europei, in una patria comune, invece che una dannazione per tutti. Ho già accennato all’attualità di un messaggio. Era la sola patria pensabile per “l’europea errante” – così si definiva – Ursula Hirschmann. Della sua vita ha scritto in “Noi senzapatria”, pubblicato e ripubblicato dal Mulino.
La riporta alla nostra attenzione un libro recentissimo di Marcella Filippa, “Ursula Hirschmann. Come in una giostra”. Tale appare l’intensissima vita di Ursula, nata in una benestante famiglia ebrea a Berlino nel 1913. Socialista, con il fratello minore Albert Otto, è nella cospirazione contro il nazismo appena giunto al potere. All’università conosce Eugenio Colorni – maggiore di cinque anni e lettore di italiano – che offre la sua stanza d’albergo per la redazione di un foglio clandestino “Der Jugendgenosse” e di volantini. Con il fratello Albert si trasferisce a Parigi ed è attiva nei gruppi antifascisti. Incontra di nuovo Colorni e lo raggiunge a Trieste, dove insegna. Lo sposa nel ’35 e si laurea a Venezia in lingue straniere. Il fratello Albert combatte in Spagna ed è attivo nella Resistenza francese.
L’attività antifascista di Colorni lo porta al confino a Ventotene nel ’38. Sono gli anni della redazione del Manifesto federalista. Ursula conosce così Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi, con la moglie Ada, che di frequente lo visita sull’isola. Il suo contributo a quello scritto non è solo di esserne stata, come Ada, il corriere sulla terraferma, ma di discussione. Quando Colorni è spostato dal confino di Ventotene a Melfi, a lei, incinta, è consentito accompagnarlo. Già ha avuto due figlie, Silvia e Renata, la terza, Eva, nasce nel ’41. Colorni evade dal confino nel maggio del ’43 per recarsi a Roma, impegnato nella ricostituzione del Partito socialista. Ursula lo ritrova a Milano il 27-28 agosto nella casa di Mario Alberto Rollier nella riunione di fondazione del Movimento Federalista Europeo. Dopo l’evasione da Melfi di Eugenio, Ursula, non più sentimentalmente legata a lui, già si era trasferita a Milano con le figlie. Colorni torna a Roma, partecipa alla difesa dall’occupazione nazista, si impegna nella Resistenza, dirige l’Avanti! clandestino. Muore il 30 maggio del ’44, ucciso da un pattuglia fascista. Quattro giorni dopo Roma è libera.
Ursula pubblica il primo numero clandestino de “L’Unità Europea” in collaborazione con i familiari di Altiero nel ’43. L’incontro di Ursula con Spinelli porta allo scoperto l’attrazione tra i due, che non si vedevano da due anni. Così Ursula, con le tre figlie, passa in Svizzera con Altiero il 15 settembre del ’43. Lo sposa a Bellinzona nel gennaio del 1945. Ne è collaboratrice in tutto il periodo svizzero e ne continua l’opera quando Spinelli rientra in Italia. Fondamentale è il suo apporto nell’organizzare, con il marito nel marzo del ’45, il primo congresso federalista a Parigi con Camus, Orwell, Mounier, Mumford, Philip. Pure rilevante il suo intervento al Convegno di Milano nel settembre del ’45, dove illustra la situazione del movimento a livello europeo. Alle tre figlie
Silvia, Renata ed Eva Colorni, si aggiungono Diana, Barbara e Sara Spinelli.
Il peso di una conduzione familiare non semplice non le impedisce una ricerca di un approccio autonomo e originale alla costruzione della federazione, sua patria ideale. A Bruxelles il 24 aprile 1975 lancia “Femmes pour l’Europe”, nella convinzione della necessità del contributo delle donne, anche le più giovani, per un’Europa che ne assicuri la partecipazione paritaria, a partire dalle condizioni di lavoro e di trattamento, pure per gli immigrati, nell’impegno per i paesi in via di sviluppo. L’emorragia cerebrale, che la colpisce nel dicembre dello stesso anno, le impedisce di dare il contributo che avrebbe voluto. Con la particolare assistenza della figlia Renata ritrova almeno la parola nella sua lingua madre. Muore all’inizio del 1991. Un’eco della sua iniziativa è nell’istituzione delle Giornate annuali “Donne per l’Europa”. Con un po’ di tempo a disposizione consiglio questo link. Da sue pagine pubblicate nei primi anni sessanta su Tempo presente colgo un autoritratto, un ammonimento e una speranza. “Non sono italiana benché abbia figli italiani, non sono tedesca benché la Germania una volta fosse la mia patria. E non sono nemmeno ebrea, benché sia un puro caso se non sono stata arrestata e poi bruciata in uno dei forni di qualche campo di sterminio”. Il padre, sensibile e amato “morì nella primavera del 1933 durante le prime grosse sagre della follia nazista. Si era talmente ritirato in se stesso che la sua morte quasi non ci toccò, soverchiati come eravamo dalla violenza degli avvenimenti intorno a noi e dallo sforzo di resistere ad essi in qualche modo”. Ursula lo sogna a Parigi qualche anno dopo, sono in un viale di Berlino, “io sapevo che lui era morto, ma lui non lo sapeva ancora. Cercavo di distrarlo con discorsi vari per far scomparire dalla sua faccia la lieve tristezza di sempre. Ma d’un tratto con angoscia sentii levarsi dal canale e dagli alberi un coro sommesso e solenne, Non possiamo aiutare un uomo morto”. Le parole di Brecht, che Ursula aveva sentito dal padre, “si applicavano a lui e al suo mondo intensi e appassionati, e che erano morti incompiuti, prima della loro ora, senza aiuto, abdicando senza lottare davanti alla volgarità barbarica che si era abbattuta sulla Germania. Noi giovani avremmo voluto difenderli, con le nostre forze ormai cresciute, ma aveva ragione il coro, Wir können einem Mann nicht helfen”.
Se ci ritiriamo in noi stessi di fronte alla volgare barbarie che torna nessuno ci potrà aiutare, né i giovani né i mitici operai evocati da Ursula. Una parte dobbiamo farla anche noi vecchi. “Ma noi possiamo soltanto amare. Non per bontà, non per senso religioso, ma perché è il nostro unico modo di restare nella realtà… Perché sono sicura che vi siano ancora da qualche parte quegli operai gravi e giusti, privi di egoismo e grandi nel sacrificio, che ho conosciuti a Berlino nel ’32-’34”.