Abbiamo bisogno anche di questo. Di occuparci delle relazioni tra di noi, di curarle, e di riconoscere e contrastare la violenza quando mina il loro l’equilibrio attaccando per prime quelle che ci costituiscono, le relazioni familiari e educative.
Riflettevo su questo nel breve viaggio che, con la scusa di presentare il libro “I sogni hanno la testa dura”, mi ha portata a Nuoro, Cagliari e Iglesias per incontri e confronti con nuovi volti e sensibilità, su temi che mi sono cari e sull’esperienza maturata nei primi trent’anni di lavoro.
È stato questo, per me, comporre il libro selezionando tra i post pubblicati su queste pagine: fare il punto, proprio mentre tutto intorno a me stava mutando, per verificare quello che restava in piedi; fare tesoro della bellezza, salutare ciò che andava a chiudersi riconoscendomi in quanto avevo vissuto. Parlarne con altri è ogni volta vivificare quelle esperienze e provare a metterle a disposizione con l’ipotesi – per ora abbastanza solida – che da alcune angolazioni si entri a contatto con aspetti dell’infanzia, della famiglia, della giustizia che rimangono invisibili ai più, o compaiono come emergenze, eventi eclatanti, titoli in prima pagina al momento del fattaccio, ma vengono rapidamente riassorbiti dalla normalità e dalla fretta. Respirare accanto alle persone in quei frangenti è un “privilegio” di pochi, in genere di chi ha un lavoro da svolgere (o di chi vi è immerso in prima persona, con poco privilegio) ma è – io credo – una conoscenza che necessita di essere trasmessa: per chi la matura, evitando di implodere, ma anche per chi non andrebbe mai oltre la prima pagina ma può riceverla. Accade così di ritrovarsi assieme ad ampliare i confini del pensabile, a sentire quello che non si vorrebbe ma si ha pure il dovere di sentire, per un richiamo di umanità e di consapevolezza.
Eppure, se si hanno orecchie e occhi ben aperti, le briciole di quello strano, inquietante dolore trapelano dalle nicchie in cui vive raggomitolato. Al Liceo “Asproni” di Nuoro il 28 marzo scorso un’allieva, Emma, ascoltando “Il buon vicinato, uno sforzo necessario”, ha sentito la spinta e il coraggio di raccontarci quella volta in cui, in pullman ha assistito alle minacce che l’uomo seduto dietro di lei rivolgeva alla madre, terrorizzata e impotente. Emma ci ha reso molto bene il suo disagio, il conflitto interiore tra intervenire a protezione della signora o tenersi nel cantuccio. Quel giorno lei, ragazzina, ha trovato una sua modalità per prendere posizione, interrompendo le minacce e lanciando alla donna un messaggio di solidarietà quando sapeva di essere a poca distanza dalla sua fermata, per ridurre le possibilità di ripercussioni successive da parte dell’uomo che giustamente la spaventava. Un gesto come questo, da un’adolescente verso un adulto infuriato e violento con la madre fin lì solo a parole, ma con la promessa di diventarlo a casa menando le mani, è di per sé una risposta alla domanda che un docente di quella scuola mi ha rivolto, sulla supposta indifferenza dei giovani. Ne vedo poca, certo non più di quanta se ne possa trovare negli adulti, purché si abbia la pazienza di raschiare la patina in superficie che è fatta di imbarazzo, timore, difficoltà a sentirsi bene nei propri panni non ancora della misura giusta.
Nel pomeriggio dello stesso giorno, alla biblioteca comunale “Emilio Lussu” di Cagliari abbiamo parlato di violenza assistita. Insieme a me intervenivano Cabiria Cacciatore, psicologa e psicoterapeuta della fondazione “Domus de Luna”, dove l’accoglienza e l’impegno educativo va di pari passo con il supporto psicologico grazie anche alla direzione scientifica di Luigi Cancrini, e don Ettore Cannavera che ha una robusta esperienza con adulti e minorenni autori di reato ed è il responsabile della Comunità “La Collina”. Don Ettore ci ha riportati sull’importanza di imparare a confliggere senza farsi troppo male. Insieme a Cabiria, concordando pienamente, sottolineavo quanto la violenza esplicita debba però essere trattata con strumenti specifici, differenti da ciò che faremmo in un conflitto alla pari, prima di tutto per interromperla e mettere al sicuro coloro che la subiscono, incominciando da chi – come i bambini – non può difendersi da solo.
Con grande tenerezza l’esperienza sarda si è conclusa il 29 marzo nella biblioteca comunale di Iglesias, introdotta dall’amico Carlo Bellisai, vera scoperta del mio viaggio insieme a sua moglie Angela. (Carlo è un uomo prezioso come insegnante, poeta, scrittore, amico della nonviolenza, educatore… e in quell’occasione si è anche rivelato uno straordinario lettore ad alta voce). È stato emozionante per me conoscere il gruppo locale di amici della nonviolenza e, nel gruppo, Teresa Piras, allieva di Aldo Capitini all’Università di Cagliari. L’incontro ha acquisito spessore dalla presenza e dal contributo dei diversi attori che si occupano di protezione dell’infanzia, dalle scuole ai servizi sociali, dalla sanità pubblica al tribunale per i minorenni, fino al volontariato. Un’ex insegnante d’inglese con gli occhi stellati mi diceva di soppiatto, con un gesto sbarazzino, che tuttora si occupa di adolescenti del territorio, e si diverte quando i suoi quindicenni al vederla passare le indirizzano bacetti nonostante le sue bianche chiome. Ma con la stessa verve e tutt’altra densità ci ha raccontato di un’allieva che ha incoraggiato a superare le sue paure, e le ha poi confidato di avere superato anche così il pensiero del suicidio.
Che cosa c’entra la nonviolenza con tutto questo? Il legame è inestricabile e profondo. È una tensione a riconoscere, diminuire, sanare, trasformare la violenza che ci pervade nella vita di ogni giorno, anche e proprio nei luoghi, o nei rapporti, che dovrebbero proteggerci. È prendere parte a un lavoro d’insieme, che necessita di tanti e tanti operatori collegati tra loro, chi più per prevenire, chi più per segnalare, o per rasserenare, o per abbracciare, o per fermare, e nessuno può agire senza gli altri. È, forse, rimediare a qualcosa che si è spezzato molto tempo prima, e ciascuno di noi può trovarne le tracce dentro di sé. È corrispondere – se ne sorrideva con Teresa Piras, e a me ritornava alla mente anche dalla lettura in corso a Ferrara – a quella insoddisfazione per la realtà com’è, che Aldo Capitini indica alla base della ricerca nonviolenta.
Ci stesse bene il mondo tale e quale, che bisogno avremmo di provare a capirlo per volerlo migliore? E se il mondo che non ci piace non sta confinato nei massimi sistemi, è proprio qui, accanto e intorno e dentro di noi, perché non dare il proprio contributo a partire dalle piccole grandi cose che sono alla nostra portata?