Interrogare la globalità della violenza nella società contemporanea, in questo nostro mondo liquido-moderno in pericolo, e non solo perché siamo in grado grazie ai “progressi” della scienza di porvi fine irrimediabilmente, ma anche perché nella specializzazione esasperata della tecnica ciascun essere umano è tendenzialmente rinchiuso in una categoria e non riesce a vedere e a comprendere ciò che è globale e fondamentale: questo è il compito supremo1 per la nonviolenza ai tempi della crisi planetaria. E interrogare i dispositivi della violenza per ricavarne multi-risposte con cui dispiegare nella quotidianità la prassi nonviolenta, che è amore in atto e generazione corale di valori. Per proseguire su questo cammino con delle risposte che saranno parziali non solamente per il mio intelletto finito ma anche per amore stesso della parzialità, gemella bistrattata della creatività, propongo di lasciarci guidare da una delle più fortunate e famose citazioni di Aldo Capitini:
“Io non dico: fra poco o molto tempo avremo una società che sarà perfettamente nonviolenta, regno dell’amore che noi potremo vedere con i nostri occhi. Io so che gli ostacoli saranno sempre tanti, e risorgeranno forse sempre, anche se non è assurdo sperare un certo miglioramento. A me importa fondamentalmente l’impiego di questa mia modestissima vita, di queste ore e di questi pochi giorni; e mettere sulla bilancia intima della storia il peso della mia persuasione”2
Spesso si fa troppo presto a dire “nonviolenza” senza considerare la dose di impegno che tale persuasione impone al proprio agire quotidiano. Essere persuaso vuol dire anche muoversi hic et nunc per beneficare. Pinna la direbbe così: bisogna avere il coraggio di fare chiarezza tra a-violenza come semplice negazione della violenza e nonviolenza così come la intendiamo noi sulla scia di Capitini. Insomma, studiare e sperimentare come sia possibile essere oggi, nel mondo globalizzato, amici e amiche della nonviolenza. perché quest’ultima non è un flirt, ma un amore infinito. Ho il piacere di parlarne oggi per voi (e anche per me) con Leonardo Caffo, giovane ricercatore al LabOnt dell’Università di Torino. Ciao Leonardo, benvenuto a questo Cafè de la Paix virtuale, anche se noi ce lo possiamo prendere lo stesso.
Ciao a tutti allora. Sono d’accordo, si fa troppo presto a pronunciare la parola “nonviolenza” senza starci troppo a ragionare su. Per quanto mi riguarda, non è che il problema sia “perché viviamo in un mondo violento” quanto, piuttosto, perché la violenza sembra la cosa più naturale di questo mondo: quasi un meccanismo adattivo di cui la nostra specie, per la sua evoluzione, non riesce a fare a meno. Per questo, credo, dovremmo provare a capire se la nonviolenza è qualcosa di davvero possibile, nel senso in cui la possibilità è tecnicamente intesa, o se non è – piuttosto – un ideale regolativo utilitarista per minimizzare le sofferenze, e massimizzare i piaceri, degli individui che vivono in società.
Seguendo questo tipo di analisi ci andiamo ad imboscare nella selva spinosa della definizione di “natura umana”…è proprio il caso?
Sì direi che non solo è il caso ma è l’unico modo per non rendere inattualizzabili indagini di pensatori come Thoreau, Gandhi o Capitini.
A osservare il nostro mondo, senza andare troppo per il sottile, verrebbe da dire che la natura umana esiste – ed è fondamentalmente qualcosa che ci conduce alla violenza e ai comportamenti negativi: questa è stata l’idea di Hobbes, e del suo contratto sociale come regolamentazione della vita violenta tra umani che vivono come lupi tra altri umani, ed è tutt’ora l’idea che regola la psicologia evoluzionistica (tutti gli esperimenti volti a mostrare quanto siamo cattivi, entro certe condizioni controllate e indotte, si fondano proprio su un paradigma hobbesiano). Vorrei far presente che se questo filone di analisi fosse non dico certo, ma quantomeno probabile, qualsiasi discorso sulla nonviolenza andrebbe – se non ad annullarsi – di certo a depotenziarsi radicalmente. E perché? … ci si chiederà. Il paragone è semplice: sarebbe come chiedersi se l’acqua possa essere, invece che H2o, per esempio, Co23. Sappiamo che esistono, tuttavia, tutta una serie di altre indagini sulla natura umana opposte, in modo radicale, a quelle di Hobbes o alla psicologia evoluzionistica: pensiamo, se non a Rousseau, almeno al pensiero anarchico nelle sue articolazioni filosofiche più recenti e complesse: Noam Chomsky, Colin Ward, o Robert Paul Wolff. L’idea è che la natura umana sia essenzialmente qualcosa di modellabile attraverso un suo sviluppo nella nonviolenza e nella condivisione pacifica degli spazi – ma è la contingenza dello sviluppo delle società, soprattutto nel contemporaneo degli Stati, a deviarne istanze positive per dar maggior sfogo a quelle negative4. Emerge qui la tesi, a mio avviso fondata, che la natura umana non sia un monoblocco, o tutto bianco o tutto nero, ma una serie di condizioni di possibilità colme di sfumature modellabili – sta alla cultura, o come vedremo a breve all’ontologia sociale, sviluppare certe caratteristiche piuttosto che altre. La nonviolenza è una delle lingue possibili, non l’unica, ma comunque possibile: sta a noi cercare di argomentare perché è la migliore.
In tempi molto brevi occorre però almeno puntare all’accordo su questa ipotesi di lavoro:5se la nonviolenza è possibile, allora essa è preferibile. Se è preferibile, bisogna studiare le possibilità che essa ci offre. Se provassimo a quantificare gli investimenti che a destra e a sinistra sono stati fatti per la violenza e, insieme ad essi, misurassimo gli investimenti che non sono stati compiuti per la nonviolenza, allora potremmo avere la giusta proporzione di ciò che può essere fatto e gli elementi per discernere ciò che è possibile da ciò che non lo è. Insomma avremmo gli elementi per quella che, tu chiami con una “parolaccia”, ontologia sociale…
Sì ecco veniamo al dunque dell’ontologia sociale – ovvero quella parte dell’ontologia che si occupa di comprendere cosa sono, come funzionano, e come vengono creati gli oggetti sociali (multe, dichiarazioni dei redditi, ecc. Quello che a mio avviso dovremmo provare a dire, e in parte lo si sta già facendo, è che un’esistenza nonviolenta è l’unica che consente all’umano di: (1) sviluppare certe caratteristiche fondamentali (un buon uso dell’empatia, per esempio, che poi concorre a tutta una serie di altri meccanismi essenziali); (2) non incorrere in problemi morali che non consentano di giustificare la maggior parte delle azioni in società; (3) distribuire correttamente le risorse, senza sbilanciare o da un lato o dall’altro. Ora, per tutte queste faccende, come anticipavo, deve aiutarci la cultura: che è il luogo in cui la natura umana, di cui è estensione, si sviluppa in un modo o in un altro.
Insomma la realtà, proprio come ci ha insegnato Capitini, non è la descrizione di ciò che è, ma è la porzione di mondo che possiamo cambiare. La nonviolenza è all’opposizione della realtà, non accetta nemmeno il fatto della morte (la compresenza) e nel suo orizzonte contiene una liberazione nella quale il pesce grande non sia più costretto a mangiare il pesce piccolo…
Hai colto il punto. Meno poeticamente l’ontologia non può essere, in relazione al sociale, soltanto la generica curiosità del “che cosa c’è” di Quine6, ma anche un monito a cambiare, rivoluzionare e adattare, a esigenze morali l’inventario del mondo sociale. Tre sono i punti, argomentativi, di cui in sintesi vorrei facessimo tesoro per future ricerche:
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La nonviolenza è possibile, a partire dalla conformazione della natura umana;
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La nonviolenza è la migliore delle forme culturali possibili da dare alla natura umana;
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È compito dell’ontologia sociale creare oggetti e contesti in cui la nonviolenza sia un ideale pratico davvero realizzabile;
Per questi, e per altri motivi che qui lo spazio ci vieta di approfondire, la vera sfida per la filosofia della nonviolenza è comprendere quali siano i migliori contesti sociali di riferimento, e le migliori società concepibili, abbandonando una falsa retorica del pluralismo o del relativismo: esistono società migliori di altre, quelle in cui la violenza è ridotta al minimo fino al suo esaurimento definitivo. L’ontologia sociale individui pure gli oggetti ma sia anche, finalmente, preludio per un’eliminazione del superfluo e del violento, come una sorta di rasoio di Occam morale. E mi si conceda dunque di finire, con una poesia di Valerio Magrelli, che mi pare a questo punto assai appropriata:
Il cervello è il cuore delle immagini,
il suo orizzonte la curva
rigida dell’occipite.
E tutto ciò che vive
è nello spirito. Nel suo cerchio
silenzioso stanno il cielo,
gli uomini e se stesso.
Note:
1 Nel senso etimologico di ciò che sta sopra e quindi con un riferimento alla paradossale responsabilità verso i terzi di un movimento ancora così minoritario
2 Aldo Capitini, da Elementi di un’esperienza religiosa 1937 ed. Laterza
3Per un’analisi di questo punto, centrale in ontologia, cfr. S. Kripke, Nome e necessità, Bollati Boringhieri, Torino 1982.
4Qui è anche utile, a mio avviso, l’analisi dettagliata svolta in F. Cimatti, Naturalmente comunisti: Politica, linguaggio ed economia, Bruno Mondadori, Milano 2011.
5 Descritta da Jean Marie Muller in Significato della nonviolenza ed. del Movimento Nonviolento, 1980
6 Mi riferisco ovviamente a W. V. Quine, “On What There Is”, in Review of Metaphysics, Vol. II (1948), n. 54, pp. 21 – 36.
[…] Taurino mi ha intervistato per Azione nonviolenta, la rivista fondata da Aldo Capitini. Qui per la […]