Dalla sintesi del rapporto Caritas 2018: «In Italia il numero dei poveri assoluti (cioè le persone che non riescono a raggiungere uno standard di vita dignitoso) continua ad aumentare, passando da 4 milioni 700mila del 2016 a 5 milioni 58mila del 2017, nonostante i timidi segnali di ripresa sul fronte economico e occupazionale. Dagli anni pre-crisi ad oggi il numero di poveri è aumentato del 182% (…) La povertà tende ad aumentare al diminuire dell’età, decretando i minori e i giovani come le categorie più svantaggiate (nel 2007 il trend era esattamente l’opposto). Tra gli individui in povertà assoluta i minorenni sono 1 milione 208mila (il 12,1% del totale) e i giovani nella fascia 18-34 anni 1 milione 112mila (il 10,4%): oggi quasi un povero su due è minore o giovane».
Un bambino di per sé non è povero e nemmeno ricco, vive nelle condizioni economiche provviste dai genitori. Forse gli adulti poveri continuano ad avere più figli dei ricchi – è sempre stato così – e per questo i bambini sono poveri. Molti di loro sono i figli dei giovani adulti, quella fascia di 18-34enni ben presente nelle classifiche della povertà. Gli anziani, più benestanti, non possono avere bambini, semmai possono – succede spesso – sostenere figli e nipoti, ma questa è un’altra storia e non rientra nei rapporti statistici perché è un aiuto informale.
Tanti bambini poveri sono figli dei migranti di prima generazione che – appunto – mediamente hanno più figli e sono anche, mediamente, più poveri: è in grave difficoltà economica quasi 1 straniero su 3 e 1 italiano su 20.
Il rapporto Caritas ragiona sui dati in modo intelligente. Delle oltre 197mila persone incontrate nel corso del 2018 il 63% (circa 89mila persone) aveva figli e più di 26mila vivevano con i bambini. «Risulta preoccupante la situazione dei minori coinvolti (…) tali deprivazioni materiali penalizzeranno irrimediabilmente il loro futuro, sul piano economico e socio-educativo. Si attivano spesso dei circoli viziosi che tramandano di generazione in generazione le situazioni di svantaggio».
Il riverbero è immediato sui giovani adulti, e pensiamo ancora alla fascia dei 18-34enni: i 60,9% dei ragazzi italiani incontrati in Caritas ha la licenza media, il 7,5% appena quella elementare. I dati analoghi tra i giovani stranieri dicono che il 38,4% ha la licenza media e il 29% quella elementare o nessun titolo di studio.
Le somme in definitiva si equivalgono: il 68%, oltre due terzi degli accolti, si è fermato entro l’obbligo scolastico, anche se gli italiani lo raggiungono con molta maggiore frequenza. Un motivo ulteriore per continuare a pensare alla scuola come opportunità per rompere quel circolo vizioso – luogo di inclusione quindi, e di attenzione, e non il contrario – e per far sì che i bambini nati in contesti di povertà non debbano obbligatoriamente rimanerci.
Il rapporto Caritas ci dice, ancora, che la gran parte delle persone incontrate non portava soltanto questioni economiche. Forti sono i problemi di solitudine e di depressione, e frequenti le difficoltà lavorative, abitative, relazionali. Penso a loro e, insieme, ai loro bambini. Alla loro quota di bisogni inespressi – a chiedere aiuto sono gli adulti, quando riescono e vogliono farlo – che non siamo ancora in grado di quantificare ma non per questo assenti. Al fatto che, pur esistendo i conflitti, i maltrattamenti, gli abusi, la trascuratezza anche nelle famiglie benestanti, è più probabile che avvengano dove manca il lavoro, dove vengono staccate le utenze, dove non si arriva alla fine del mese, e questo sia per le tensioni inevitabilmente vissute dagli adulti, sia perché lo svantaggio sociale e culturale spesso si accompagna a problemi molto seri quali l’alcol, le droghe, il disagio personale fino alla malattia mentale, una pessima esperienza a propria volta come figli di genitori inadeguati… e tutto questo porta con sé una minore attenzione ai bisogni dell’infanzia.
È frequente, nelle udienze del tribunale per i minorenni, incontrare genitori che non ce la fanno. Ricevo la loro accusa, più o meno esplicita: “Perché i servizi sociali non mi danno una casa o un lavoro invece di venirmi a dire come devo trattare mio figlio?”.
Nel dialogo impossibile, e nella scarsità di risorse avvertita in primis dai servizi, si svolge l’illusione che una pioggia di monete d’oro renda felici tutti, anche i bambini. È il presupposto di chi dice “anziché spendere denaro per mettere il bambino in affido o in comunità dovevano dare quei soldi ai genitori”, quasi che si allontanasse per sanzionare la povertà o che le stesse persone, risolta la sopravvivenza, siano di per sé in grado di occuparsi bene dei loro figli. A scavare un poco di più affiora il resto: le ferite della propria infanzia maltrattata e non vista, l’assenza di un progetto di vita realistico anche solo per sé, il sovrapporsi di relazioni arruffate e violente con partner sbagliati, il mancato esercizio ad assumersi responsabilità verso se stessi e, poi, gli altri.
Sì perché non tutti i genitori in povertà arrivano nelle nostre aule. Molte famiglie con bambini ricevono aiuti dai servizi, economici, abitativi, nell’inserimento scolastico… e solo per una quota di queste c’è bisogno di intervenire a protezione dei più piccoli, con supporti e limitazioni di diversa intensità fino all’atto più intrusivo, cioè il distacco più o meno temporaneo tra genitori e figli.
Diversi progetti si stanno sviluppando in Italia per aiutare questi adulti in difficoltà a non perdere di vista i loro bambini in modo che non sia necessario forzare i legami familiari. Ci sarà modo di parlarne anche qui. Nella trascuratezza, nella povertà, funzionano meglio che nella violenza, ma già attivare dei supporti alle prime incrinature e assicurarli a tutti nel modo più adeguato sarebbe una grossa risorsa in termini di prevenzione. Insieme al garantire la qualità della scuola a partire dall’infanzia, è una pista di lavoro da non abbandonare.