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Pratica e significati del digiuno di pace

Diadmin

Mar 2, 2022

La pratica del digiuno è antichissima ed è imparentata con l’ascesi. Nasce e rimane connessa con la ricerca spirituale, con la liberazione dalle pulsioni del corpo per offrire spazio e leggerezza all’anima.

Indipendentemente dal credo di ciascuno e anche dalla storia plurimillenaria di questa pratica, il digiuno non cessa nella contemporaneità di essere praticato in momenti particolarmente salienti della lotta per i diritti. Se Gandhi è il primo a unire digiuno e azione nonviolenta (come ricorda Mao Valpiana qui), in Italia, tra i profeti di nonviolenza, Danilo Dolci non è l’unico ma è certamente il più noto per i digiuni, anche molto lunghi, con cui ha accompagnato la pacifica e costruttiva ribellione alle penose condizioni di vita e di lavoro in Sicilia. Nella politica più recente, tutti ricordiamo gli scioperi della fame di Marco Pannella. In un’epoca in cui si afferma il potere mediatico, il digiuno, condotto talora fino a un pericoloso deperimento, accende un faro sulle condizioni che si chiede di cambiare e che, fino a quel momento, chi ha il potere di intervenire ha ignorato. Rappresenta cioè una forma di “drammatizzazione” del conflitto tenuto per marginale e reso invisibile dalla noncuranza, un modo per metterlo sulla scena sociale e politica facendolo uscire dalle quinte.

È facile che si venga irrisi per un digiuno contro la guerra: a cosa serve? Non può certo fermare i carri armati!

Innanzitutto il digiuno “serve”, se proprio vogliamo scomodare la categoria dell’utilità, a radicare la persuasione nonviolenta, direbbe Aldo Capitini. Ha prima di ogni altra cosa la funzione di aprire uno spazio di riflessione e di approfondimento personale rispetto al valore della nonviolenza. Ore di raccoglimento in cui ci si fa presenza a sé stessi, per ribadire che sì, la pace è l’unica via e la nonviolenza parte sempre da sé. In una società costruita su ritmi accelerati, digiunare è rallentare e in quel rallentamento, respirare, meditare, pregare, tornare sul proprio asse interiore. Risponde al lentius e al profundius langeriano.

Il digiuno permette di percepirci deboli, ecco un’altra sua peculiarità. Il corpo avvezzo al cibo deve cimentarsi con la mancanza, con l’assenza, con il vuoto di materia e, con l’andare delle ore e dei giorni, di energia. Ci si apre a una sofferenza (per un giorno piuttosto lieve, peraltro) che, diceva Gandhi e ribadiva Capitini nelle Tecniche della nonviolenza, funge da addestramento al sacrificio, da preparazione a una sofferenza maggiore che si potrebbe dover esperire nella lotta nonviolenta. Un addestramento, come è chiaro, che non punta alla forza fisica come per i soldati armati, ma alla forza interiore, a quel “radicamento solido nella verità” espresso dal neologismo gandhiano satyagraha, ma che trova anche nell’evangelico “nella tua debolezza è la tua forza” un richiamo potente. Quella debolezza per don Tonino Bello diventa l’onnidebolezza del Dio che si fa neonato nelle braccia di una donna, in contrapposizione all’onnipotenza del Dio “istituzionale”, del Dio degli eserciti del Vecchio Testamento. Scegliere la debolezza attraverso il digiuno è cioè una forma di disarmo e si apre alla gentilezza partendo dal corpo. Ci riporta al suavius di Alex.

Ma un ulteriore spazio si apre dentro, quello della coscienza della sofferenza altrui, alla quale si connette sempre la scelta del digiuno. Provare nel proprio corpo la carenza costruisce un ponte invisibile, ma molto solido, con i patimenti degli altri, di tutti gli altri e di vivere in prima persona, concretamente, la solidarietà. Non si può solidarizzare con i poveri, i perseguitati, i profughi che ogni guerra produce con la pancia piena, le tavole imbandite, la mente rimpinzata di banalità. Ci sarà poi il momento della festa, ci auguriamo: ora è il tempo della sobrietà e del silenzio generativi di fratellanza.

In questo senso il digiuno ha il potere di introdurre una cesura nell’abituale e abitudinario ritmo della quotidianità, una epoché, ovvero una sospensione dal tramestio dei giorni. Oggi la pausa dal cibo ha anche un valore ulteriore: nonostante la povertà materiale non sia affatto scomparsa, in media non conosciamo la miseria, il morso e la morsa della fame. Nell’epoca dello spreco, degli ipermercati traboccanti, delle malattie da opulenza, il digiuno mette davanti alla domanda sui nostri stili di vita e su quanto e al prezzo di quante vite l’abbondanza sulle nostre tavole, nei nostri frigoriferi, sui fornelli venga pagata. E così gli impianti domestici di condizionamento, i dispositivi costantemente attaccati alla presa elettrica, il web e i social onnivori di energia.

Con la domanda energetica in perenne crescita, questa guerra ci dovrebbe indurre domande precise su quanto è giusto – per le popolazioni oppresse, per il Pianeta e gli altri esseri viventi, per la nostra stessa salute – macinare le risorse con questa fame implacabile e distruttiva. Ecco, il digiuno riporta alla nostra capacità di abbassare i livelli di consumo, ci dice che siamo capaci di non mangiare per un giorno e, con ogni probabilità, di mangiare di meno ogni giorno, di consumare di meno, di impossessarci di meno, di sottrarre di meno a tutti gli altri. E lancia un messaggio ai politici, ai potenti che le guerre le allestiscono per garantire anche a noi livelli di benessere ormai insostenibili e rinvigorire i mercati finanziari: possiamo prendere coscienza che non abbiamo bisogno di tutto questo, ma potremmo accontentarci di molto meno, vivendo tutti in pace.

(Gabriella Falcicchio)

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