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Primo, disarmare la cultura. Intervista su trent’anni di impegno nonviolento

DiPasquale Pugliese

Mar 14, 2021

Come ti sei avvicinato ai temi legati alla pace ?

Ringrazio Saverio per avermi dato l’occasione di riflettere sull’impegno per la pace con un taglio biografico, ossia di ragionare e scrivere sul senso di avere investito del tempo – tanto tempo – che è la più importante risorsa personale, per contribuire al tentativo collettivo di riduzione della violenza tra gli esseri umani. E questo mi riporta lontano nel tempo, appunto, e nello spazio, ossia alla fine degli anni ‘80 quando studiavo all’Università di Messina da studente fuori sede, proveniente dalla costa tirrenica calabrese di Tropea. Ai tempi in cui, da giovane studente di filosofia, ero alla ricerca di una personale riflessione critica sull’esistente che si collegasse ad una prassi attiva di cambiamento della realtà, in particolare rispetto all’accettazione della inevitabilità della violenza e della guerra.

C’è stato qualcuno o qualcosa ha inciso in modo determinante nella tua scelta di impegnarti su questi temi?

Incontravo, lungo questa ricerca, nello stesso periodo il pensiero e l’opera di Mohandas Gandhi attraverso la lettura di “Teoria e pratica della nonviolenza”, nella bella prima edizione Einaudi con la copertina rigida, curato da Giuliano Pontara, il filosofo italiano di Stoccolma tra i maggiori esperti internazionali del pensiero nonviolento, che avrei invitato, molti anni dopo, alla Scuola di Pace di Reggio Emilia; incontravo il Movimento Nonviolento attraverso la rivista fondata da Aldo Capitini “Azione nonviolenta”, allora venduta in libreria; poi i compagni messinesi, l’impegno politico dal basso nel movimento universitario della “Pantera”, durante il quale organizzai i primi seminari sulla teoria della nonviolenza e le prime pratiche di azione diretta nell’occupazione della Facoltà… Incontri ed esperienze che si sedimentavano non come momenti occasionali, ma come componenti di una scelta che avrebbe segnato il mio percorso di vita. Da lì a poco, infatti, maturai la scelta di laurearmi con una tesi di laurea sul pensiero di Aldo Capitini – la cui rielaborazione nel 2018 sarebbe diventata una “Introduzione” al suo pensiero filosofico – e di dichiararmi obiettore di coscienza al servizio militare, con l’impegno nel servizio civile in una comunità che si occupava di giovani tossicodipendenti. E poiché ogni scelta ed ogni incontro porta con sé altre scelte ed altri incontri, ricordo come fondamentali l’incontro con Pietro Pinna, il primo obiettore di coscienza politico italiano, che avvenne a Perugia – nei giorni successivi alla Marcia della Pace del 1990 – nella casa di Aldo Capitini, che era allora sede nazionale del Movimento Nonviolento, che mi consegnò dei materiali capitiniani sui quali lavorare per la tesi e poi, tornato a Messina, la partecipazione al movimento contro la guerra del golfo del 1991, con le marce fino alla base militare di Sigonella, da cui partivano i caccia statunitensi.

Al mio arrivo a Reggio Emilia, dunque, città nella quale ho scelto di trasferirmi, quando avvenne il primo contatto con il Movimento pacifista reggiano del tempo – alla sede del Cendip, il Centro di documentazione per la pace di via Vittorangeli – ero già carico di quelle esperienze, alle quali si sarebbe presto aggiunta la partecipazione al Coordinamento nazionale del Movimento Nonviolento, al quale ero stato eletto nel Congresso di Fano del 1997. Lo stesso anno in cui iniziai a lavorare a Reggio, da educatore, nei G.E.T. i Gruppi Educativi Territoriali, dopo due anni di pendolarismo lungo la via Emilia in direzione Modena. La mia esperienza nel movimento per la pace reggiano prese il via, sostanzialmente, nella fase successiva a quella del periodo indicato in questa ricerca collettiva e, di fatto, non si è mai interrotta seppure, nel tempo, sono cambiate le modalità, le forme, le dimensioni.

Puoi descrivere che ricordo hai di questo tuo coinvolgimento, cosa hai provato nel sentirti parte di un movimento?

In realtà, per citare Nanni Salio – uno dei miei punti di riferimento nella nonviolenza italiana, la cui analisi puntuale purtroppo è mancata troppo presto – “il movimento per la pace è un movimento che non c’è”, ossia dall’abbattimento del muro di Berlino in avanti si è manifestato come movimento occasionale capace di mobilitarsi, anche in maniera importante, solo in conseguenza di eventi bellici, ma sfaldandosi subito dopo, senza regolarmente riuscire a fermare nessun cacciabombardiere. Solo piccoli movimenti nonviolenti hanno continuato nel tempo e consecutivamente l’impegno per il disarmo, seguendo le indicazioni di Aldo Capitini “se vuoi la pace prepara la pace”. E, al di là delle mobilitazione contro i diversi eventi bellici che negli ultimi trent’anni hanno coinvolto il nostro paese, è stato proprio il Movimento Nonviolento la comunità di cui mi sono sono sentito e sono stato parte, anche e soprattutto in una dimensione nazionale. In questo senso, nel mio impegno reggiano ho provato a dare continuità all’impegno per la pace cercando di fare rete tra associazioni diverse in una dimensione continuativa, prima con l’esperienza dell’associazione informale “Resistenza e pace”, dentro alla quale sono confluite sensibilità ed esperienze diverse esito della mobilitazione contro la guerra nei Balcani, poi con il nodo reggiano della “Rete Lilliput” che ha portato come specifico contributo il tema delle pratiche nonviolente anche in riferimento ai tragici eventi di Genova 2001, e successivamente con la “Scuola di Pace”, che è stata un’esperienza decennale nella quale la società civile reggiana impegnata per la pace ha provato a fare rete.

Ci sono stati alcuni argomenti – all’interno del tema “pace” – che ti hanno motivato e coinvolto in modo particolare?

Il mio impegno, che ho cercato di portare nelle varie esperienze ha avuto – e, seppure in modalità diversa, ha ancora – come focus principale il tema del disarmo, militare e culturale, e la promozione della cultura e della pratica nella nonviolenza, su un piano politico e formativo. Ho provato a declinare il tema della nonviolenza come scardinamento di tutti i livelli di violenza – diretta, strutturale e culturale – secondo l’insegnamento di Johan Galtung, ed a costruirne le alternative: “la violenza diretta è un evento; la violenza strutturale è un processo con alti e bassi, la violenza culturale è un’invarianza, una permanenza”. Oggi il mio impegno (nel poco tempo che ormai riesco a dedicare a questi temi) è volto, in particolare, a de-costruire proprio la violenza culturale, a disarmare la violenza implicita – nella cultura, nel linguaggio nell’educazione – che giustifica e legittima i livelli più espliciti di violenza.

Puoi descrivere le dinamiche di confronto/approfondimento interne al gruppo, luoghi periodicità e modalità delle riunioni?

Impegnato sia nel livello locale che in quello nazionale, ci sono stati periodi in cui durante la settimana dedicavo quasi tutte la sere ad infinite riunioni reggiane nelle quali cercare sintesi tra posizioni diverse – fare reti e manutenerle è un impegno defatigante! – e nei fine settimana ero impegnato lontano da Reggio per coordinamenti nazionali del Movimento Nonviolento – caratterizzati da “familiarità e tensione ideale”, per citare ancora Capitini – o in gruppi in lavoro di reti e campagne regionali e nazionali o per svolgere incontri di formazione. E le dinamiche, anche relazionali, erano diverse in base ai contesti ed al ruolo che svolgevo in ciascuno di essi, tuttavia le caratteristiche che accomunavano le persone delle associazioni e dei movimenti che ho frequentato sono l’umanità e la generosità. Più o meno coniugate con la capacità organizzativa.

Hai sentito l’importanza e la forza dell’identità di gruppo o è stato un percorso individuale?

Il mio è stato un percorso che è nato individuale, ha cercato l’incontro di gruppi e di reti, secondo il principio che andando da soli si va più veloci ma andando insieme si va più lontano, ed è tornato in questa fase in una dimensione più personale. Oggi, sostanzialmente, curo dei blog di approfondimento e faccio comunicazione sui canali social. In futuro si vedrà, “camminando s’apre il cammino” come diceva Arturo Paoli.

Nella tua esperienza pacifista hai partecipato a molti eventi? Ricordi momenti, iniziative, manifestazioni che hanno avuto per teun’importanza particolare e a cui hai partecipato attivamente?

All’interno di questa intensa attività le iniziative che ricordo sono molte, sia sul piano locale che nazionale: dalle manifestazioni di fronte alle basi militari di Sigonella e Aviano alle Marce Perugia-Assisi, dalla Tenda in piazza contro la guerra nel Balcani al Festival dell’educazione alla pace di Reggio Emilia, dalle piccole esperienze di formazione alla nonviolenza ai Congressi del Movimento Nonviolento e così via… Ma, tra le tante, ce ne sono due che mi stanno particolarmente a cuore: il lavoro fatto con la Scuola di Pace per riportare alla memoria di Reggio Emilia l’eccidio dimenticato di Mario Baricchi e Fermo Angioletti, i giovanissimi antimilitaristi uccisi dall’esercito italiano di fronte al Teatro Ariosto nel febbraio del 1915 e cancellati dalla memoria della città, ai quali è stato dedicata finalmente una degna celebrazione per il centenario della morte in Sala del Tricolore ed inaugurata una lastra di bronzo nei luoghi dell’eccidio. L’altra iniziativa che voglio ricordare ha una dimensione nazionale: l’organizzazione con il Movimento Nonviolento e le Reti pacifiste nazionali dell’”Arena di Pace e disarmo”, che si è svolta a Verona il 25 aprile del 2014, ha visto la partecipazione di migliaia di persone ed il lancio della campagna “Un’altra difesa è possibile”, per la difesa civile, non armata e nonviolenta, che continua ancora

Ci sono state persone che ti è capitato di conoscere in quegli anni che si sono rivelate molto importanti per il tuo percorso di crescita umana e politica?

Le persone conosciute in questo percorso sono molte. Non cito i viventi per non dimenticare nessuno, mentre tra coloro che non si sono più, sul piano nazionale non posso non ricordare le figure già citate di Pietro Pinna, co-fondatore con Capitini del Movimento Nonviolento, e Nanni Salio, presidente del Centro Studi Sereno Regis di Torino – che ho coinvolto anche nel percorso di costruzione della Scuola di Pace di Reggio Emilia – e poi Alberto L’Abate, studioso raffinato ed infaticabile costruttore di inziative nonviolente: da ciascuno di loro ho imparato qualcosa che porto sempre con me. A Reggio Emilia ho conosciuto la figura straordinaria di Paride Allegri di cui – tra gli altri ricordi – conservo preziosamente una nota, scritta a margine di un suo documento per il disarmo degli ultimi anni nella quale mi dice: “Caro Pasquale, Reggio diventi un punto propulsivo per il disarmo. Grazie. Paride”. A Paride Allegri credo che la città di Reggio Emilia dovrebbe mostrare più riconoscenza.

Che rapporto hai avuto con i partiti politici di allora e nei confronti della politica istituzionale di allora?

Ho sempre considerato l’impegno per la pace, il disarmo e la nonviolenza un lavoro fortemente politico, e lungo questo percorso ho trovato più volte l’intelocuzione con la politica dei partiti, provando a portare questi temi all’interno della priorità della sinistra nelle sue diverse declinazioni, locali e nazionali, partecipando (ed anche organizzando) iniziative pubbliche, seminari programmatici ed accettando anche una candidatura per la Camera dei Deputati… devo dire purtroppo che, sul piano dei risultati, questo impegno politico-politico è stato tra quelli meno soddisfacenti.

Cosa ha determinato il tuo progressivo allontanamento dal movimento? Ci sono stati uno o più eventi che hanno messo fortemente in discussione il tuo impegno?

In realtà non mi sono mai allontanato ne’ dal “movimento per la pace” in generale, ne’ dal Movimento Nonviolento nello specifico, del quale fino ad un paio di anni fa sono stato nella segreteria nazionale, ma ho sicuramente allentato le responsabilità e l’impegno organizzativo per ragioni di sostenibilità personale. Nel tempo che mi è dato, continuo ad impegnarmi sul piano culturale e formativo, che credo sempre di più essere quello essenziale.

Trovi giusto dire che il ridimensionamento del movimento pacifista sia avvenuto per “disillusione”ovvero per la sensazione che non riuscisse ad incidere sulla gente, nonché sugli equilibri nazionali ed internazionali, o no?

In realtà credo che il “movimento pacifista” abbia avuto un ridimensionamento ed uno sfaldamento dal punto di vista della capacità di mettere in campo grandi manifestazioni di contrasto alle guerre (“il movimento che non c’è”), ma dal punto di vista delle organizzazioni e delle campagne in questo momento c’è da segnalare una importante dinamicità: per esempio le due reti nazionali – Rete Pace e Rete Italiana Disarmo – a cui aderiscono molte organizzazioni della società civile, pur in questa epoca di frammentazioni, sono riuscite a fondersi ed a costituire una più grande Rete Pace e Disarmo, che porta avanti – anche con alcuni successi – diverse campagne, con competenza ed attenzione. Per esempio quella che ha fatto si che l’ultimo atto del governo “Conte 2” fosse la revoca delle commissioni militari italiane per l’Arabia Saudita, o la campagna internazionale ICAN (che ha vinto anche il premio Nobel per la pace) che ha portato al Trattato ONU per la messa al bando delle armi nucleari, al quale tuttavia il nostro Paese non ha ancora aderito… Si tratta di forme di mobilitazione sicuramente diverse rispetto al passato, ma non per questo meno significative, almeno in termini di risultati se non di coinvolgimento di massa

A distanza di anni, credi comunque che fosse importante impegnarsi per la pace? Credi che la mobilitazione, le iniziative e le testimonianze di allora abbiano contribuito a far crescere le coscienze delle persone? Ritieni che la mobilitazione su certi temi (soprattutto l’opposizione alla guerra e alle spese per gli armamenti) abbiano contribuito a portare oggi una maggiore comprensione e sensibilità nella gente?

Credo che l’impegno per la pace sia stato e sia ancora l’impegno essenziale per tutte e tutti e riconsegnerei ancora ad esso tutto il tempo e le energie che ho investito, ma – come in tutte le cose umane – niente è acquisito per sempre. Per cui le “vecchie” coscienze vanno sempre ri-sollecitate e le nuove vanno educate, anche di fronte ad una situazione che dal punto di vista dell’attenzione a questi temi è assolutamente peggiorata, nonostante le spese militari italiane e globali raggiungano – anno dopo anno – picchi mai visti prima, sottraendo enormi risorse agli investimenti civili e sociali, e quindicimila testate nucleari di nuova generazione sono puntate contro le nostre teste. Siamo nel pieno di una nuova corsa agli armamenti, senza che ve ne sia alcuna consapevolezza: per questo credo che occorra un vero e proprio lavoro di coscientizzazione. Ed a questo cerco di dedicarmi ancora.

Di Pasquale Pugliese

Pasquale Pugliese, nato a Tropea, vive e lavora a Reggio Emilia. Di formazione filosofica, si occupa di educazione, formazione e politiche giovanili. Impegnato per il disarmo, militare e culturale, è stato segretario nazionale del Movimento Nonviolento fino al 2019. Cura diversi blog ed è autore di “Introduzione alla filosofia della nonviolenza di Aldo Capitini” e "Disarmare il virus della violenza" (entrambi per le edizioni goWare, ordinabili in libreria oppure acquistabili sulle piattaforme on line).

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