“Il rischio maggiore che attecchiscano le prepotenze è proprio nelle classi di nuova formazione, quando i ragazzi non si conoscono ancora e hanno bisogno di trovare un loro modo di stare insieme”.
“Lei sta parlando del periodo in cui la classe cerca di definire la propria identità!?” domanda un’insegnante, un po’ stupita, un po’ risentita.
Colgo un’increspatura e mi pare che voglia dirmi questo: il coro è forte, la voce solista è fragile. Se si identificano tutti nello stesso modello è una cosa buona, se si differenziano è disgregante, non ci lascia tranquilli come insegnanti, fa stare male i ragazzi.
Ricevo lo stimolo e mi viene in mente che da qualche tempo sento spesso un aggettivo utilizzato per screditare qualcosa (ci ho fatto caso particolarmente intorno al 25 aprile), ed è la parola divisivo. È anche difficile da pronunciare, scivola, ma tant’è, certe cose andrebbero espunte dall’agenda o dalla memoria perché sono divisive.
Mi ritrovo a pensare: e con ciò? Che c’è di male se idee, gusti, mete ci dividono? Dobbiamo essere per forza tutti uguali, tutti omologati per andare d’accordo? Una volta che chi sta dall’altra parte non ci sembri necessariamente un nemico da eliminare ma qualcuno con cui confrontarci, che c’è di male ad avere convinzioni, valori, obiettivi diversi?
Il punto credo sia che la differenza adombra il rischio del conflitto, e il conflitto fa paura. Uniformiamoci allora, e contiamo che anche i ragazzi lo facciano. In un istituto professionale pochi giorni fa, a proposito di legalità e di giustizia minorile, con i ragazzi parlavamo dell’anziano che è morto a Manduria e si è aperto un interrogativo su un’espressione che da decenni, purtroppo, sento risuonare tra gli adolescenti. Che cosa significa “fare l’infame”? È infame chi parla? Non lo è molto di più chi sa, e vede, e sta zitto?
Sono in formazione e ritorno all’insegnante, quella che mi ricorda con un certo afflato quanto un gruppo di preadolescenti abbia bisogno di identità.
“C’è un periodo dell’anno scolastico in cui, in prima, la classe si occupa principalmente di questo”, riprende la prof.
“Sì, è vero. È naturale, ed è anche molto bello che questa fase ci sia”, le vado incontro, “tutto sta a ricordarci che la ricerca dell’identità di un gruppo può prendere tante vie e a volte – non necessariamente, ma può succedere – percorre una strada sbagliata. Voi insegnanti siete parte di questo processo e potete guidarlo, o quantomeno orientarlo, in modo che un gruppo non si riconosca in un equilibrio basato sulla violenza”.
“Vi propongo un esperimento”, proseguo. “In questa sala sommiamo decine di anni di scuola. Vi chiedo di ripensare alla vostra esperienza. Potete pensarvi come allievi, oltre che come insegnanti e, molti di voi, come genitori di figli che vanno a scuola. Vi chiedo di richiamare alla memoria una situazione di bullismo che avete incontrato, di concentrarvi sulla persona che veniva presa di mira e di dirci se aveva delle caratteristiche particolari”.
Pochi secondi di silenzio, le cellule grigie di ciascuno vanno alla ricerca di fotogrammi a volte molto lontani nel tempo. La messa a fuoco è rapida ed eccoli sfilare: “un ragazzo che aveva un piccolo problema di apprendimento, era discalculico, e aveva anche dei modi piuttosto effeminati”; “un bambino grassottello, timido, che nei giochi di movimento non riusciva come gli altri”; “i secchioni, difatti certi ragazzi smettono di studiare per far smettere queste cose”; “studenti non alla moda come aspetto, come modo di vestire o gusti musicali”; “più trascurati, a volte anche nell’igiene, con genitori che non si occupano di loro”.
“Si potrebbe dire che chi è diverso dalla maggioranza ha maggiori probabilità di essere vittima di bullismo?”.
“Indubbiamente sì”, colgo al volo la sintesi di questa insegnante. “Perciò è bene sapere sempre che chi può essere percepito dai compagni come “diverso” ha maggiori probabilità di subire prepotenze e alcuni aspetti, quelli che definiscono l’identità, sono particolarmente sensibili, soprattutto in adolescenza. Nell’elenco metterei: la provenienza, la famiglia, la reputazione sessuale per le ragazze, l’omosessualità per i ragazzi, le caratteristiche fisiche inclusa la disabilità. Ma ciò che rende qualcuno vittima non è sempre la stessa cosa. Un ragazzo può essere bersagliato perché va molto bene a scuola, un altro perché è stato bocciato”.
“Dipende dal contesto”, chiosa l’insegnante con il dono della sintesi.
“Già, e questo spiega non tutto il bullismo ma una grossa parte. Il gruppo si dà una regola, sceglie il valore in base al quale definisce i rapporti tra i membri. Chi non corrisponde alle attese, peccato, sarà la vittima. Potrebbe dispiacere se fosse un amico, ma chi vuol essere amico di uno così diverso? La deumanizzazione della diversità è un meccanismo molto noto, lo conosciamo benissimo purtroppo. E, vedete, questo tipo di bullismo a suo modo è funzionale perché – se ci dimentichiamo per un attimo di chi sta sotto – tutti gli altri stanno benissimo. È al sicuro il “bullo” perché ha potere, è al sicuro il gruppetto che gli ronza intorno, vive apparentemente tranquillo quello un po’ timido che fa finta di niente ed è contento perché anche oggi non sarà vittima… Non è veramente così, c’è sicuramente chi si rende conto e sta male perché empatizza con il compagno preso di mira ma apparentemente tutto funziona, tutto è in ordine. Solo che quest’ordine è malato, perché si fonda sulla sofferenza di qualcuno e sull’annullamento della diversità. Per questo ogni vostro intervento sull’apertura e sulla conoscenza reciproca è di per sé una buona prevenzione del bullismo. Il gruppo ha bisogno, certo, di darsi un’identità, ma può farlo senza schiacciare i singoli e, anzi, dando ad ognuno lo spazio per essere se stesso”.
“In una classe ho visto diventare vittima un ragazzo cui era morta la mamma. L’insegnante di lettere lo aveva preso particolarmente a cuore e gli altri lo tartassavano”.
“Sarà stato il cocco della prof. Però potremmo riconoscere anche altro”, provo a suggerire. “Squalificare l’altro può essere anche un modo per proteggersi dal contatto con il dolore”.
“In questo caso non so se è andata così. Il bullo era un ragazzo che non aveva mai conosciuto suo padre, anche a lui mancava un genitore e forse era un po’ geloso per le attenzioni di quell’insegnante”.
“Allora sì, è probabile. Il compagno riceva attenzioni di cui anche lui avrebbe avuto bisogno, e invece di cogliere che c’era la sensibilità giusta perché anche lui potesse esprimere la sua mancanza ha scelto la strada del cinismo, della prevaricazione. È una protezione dalla sofferenza, lo comprendiamo benissimo”.
“Mi viene in mente una cosa, non so se giusta”, interviene dalle retrovie un educatore della Carovana. “Forse, in certi casi, il bullo e la vittima non sono poi tanto diversi”.