Ci si potrebbe chiedere perché tornare oggi su un libro pubblicato nel 2016 (G. Pontara, Quale pace? Sei saggi su pace e guerra, violenza e nonviolenza, giustizia economica e benessere sociale, Ed. Mimesis). Propongo almeno tre ragioni sufficienti o insufficienti, condivisibili o meno.
La prima è che l’autore, filosofo della politica fra i massimi studiosi della nonviolenza (italiano ma vive in Svezia dal 1952, dove si trasferì per obiettare al servizio militare), ha intrapreso in questi primi mesi dell’anno, in Italia, un tour sulla filosofia gandhiana della nonviolenza (il 22 marzo scorso era a Brescia per un’iniziativa promossa dal Movimento Nonviolento di quella città e organizzata all’interno del Festival della Pace di Brescia, che vede impegnati in prima persona il Comune e la Provincia). Gandhi, infatti, moriva settanta anni fa (1948); vent’anni fa veniva ucciso Martin Luther King (1968) e in Italia moriva Aldo Capitini (antifascista e pacifista); cento anni fa nasceva Nelson Mandela (1918). Tutti legati al pensiero della nonviolenza.
La seconda, molto più rilevante, è che l’escalation di violenza, a livello mondiale, non accenna a diminuire (sarebbe sufficiente richiamare i sanguinosi combattimenti in terra siriana, con l’uccisione di una moltitudine di civili, soprattutto bambini, e il conseguente massiccio esodo delle popolazioni civili). Al riguardo il libro offre, nei primi due capitoli, una breve ma efficace panoramica delle nuove forme assunte dalla violenza, che però insistono sempre sul medesimo fenomeno: la guerra. Abbiamo così la “guerra al terrorismo” oppure la “guerra umanitaria”, intrapresa per difendere i diritti umani di alcuni violando quelli di altri («principio del doppio effetto»). La soluzione prospettata da Pontara è il definitivo abbandono delle vie alla pace (che possono essere anche violente), per percorrere le vie della pace, richiamando l’idea gandhiana che «non vi è via che porta alla pace, perché la pace è la via».
Proprio sul come intraprendere la via della pace, il libro è ricco di spunti interessanti, che indicano un reale percorso per la costruzione della pace giorno dopo giorno a partire dai conflitti concreti piccoli e grandi, senza indugiare in mere dichiarazioni di principio, sempre importanti, ma che spesso rischiano di essere fine a se stesse.
In questa direzione muove l’esortazione a denunciare con forza la ripresa della corsa al riarmo nucleare (come ad es. i tentativi della Corea del Nord, cui risponde la politica ottusa del Presidente statunitense Donald Trump). Da qui l’invito al movimento pacifista di chiedere la ripresa delle trattative internazionali per lo smantellamento degli arsenali atomici: il primo dei tre tipi di pacifismo (“strumentale”, “istituzionale”, “finalistico”), che Norberto Bobbio teorizzava nel suo sempre utile pamphlet Il problema della guerra e le vie della pace, il Mulino, 1979. Proprio al pensiero sulla pace del filosofo torinese è dedicato l’intero cap. III di Pontara il quale ebbe intensi rapporti di scambio con Bobbio.
Oppure l’addestramento e la pratica, a livello interno e internazionale, delle soluzioni nonviolente dei conflitti. Come uno dei massimi seguaci del pensiero gandhiano, il pensatore norvegese, Johan Galtung, persegue nella sua lunga esperienza di peace research. Qui la scommessa è di abbandonare strutturalmente la violenza dalle relazioni umane. Illuminanti al riguardo gli esperimenti scientifici e gli esempi storici sulla “banalità del bene” (cap. V), dove si riscontra il dato incoraggiante della “nonviolenza attiva che cresce su se stessa”.
Accanto a questi impegni, nel libro (cap. VI) si avanza un’altra e importante proposta per la costruzione della pace: il riequilibro nella distribuzione mondiale delle risorse. Il richiamo all’aspetto economico per ridurre il tasso di conflittualità a livello mondiale è un passaggio importante del messaggio irenico di Pontara. Che anche qui richiama l’idea di Gandhi del «the welfare of all». Nella società sarvodaya, teorizzata da Gandhi, il ‘benessere’ deve aumentare per tutti e non può essere inteso solamente come «assenza di sofferenza». Perché – come si insiste nell’ultimo capitolo del libro – la diseguaglianza economica produce malessere sociale, che spesso determina un aumento della conflittualità. Gli stessi paesi più ricchi e sviluppati, che però hanno un alto indice di disuguaglianza nella distribuzione del reddito (es. USA, Portogallo, Inghilterra), presentano un maggiore tasso di conflittualità e di aggressività, con una regressione della «fiducia sociale» (pp. 143 ss.). Insomma «la crescita della disuguaglianza economica verificatasi nella maggioranza dei paesi dal 2008 a oggi, è foriera di gravi e ulteriori problemi sia sociali che politici, con vaste ripercussioni globali» (p. 152).
Un libro a tutto campo sul tema della pace, anche con indicazioni di politica concreta, su cui vale la pena di tornare a riflettere, per comprendere una volta per tutte che il vivere senza violenza (armata) è una conquista quotidiana che va sempre perseguita e difesa.
Antonello Calore
Professore Ordinario di Diritto romano
Dipartimento di Giurisprudenza
Università degli Studi di Brescia