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Quattro stupidaggini sulla tutela dei bambini

DiElena Buccoliero

Giu 20, 2019

Sollecitata dall’articolo di Daniele Lugli ci ho pensato un po’ su e ho ritrovato alcuni stupidi atteggiamenti che a volte si assumono, quando si tratta di bambini: usare i paraocchi, giudicare prima di conoscere, fare come se non fosse successo niente, fermarsi alle etichette e ignorare i contenuti. Seguendo Musil ho anche provato a domandarmi se siano dettati da stupidità incolpevole o pretenziosa. Non sono sicura della risposta.

  1. Usare i paraocchi

A Venezia c’è una bambina di 6 anni che non può avere la carta d’identità. È figlia di due donne che l’hanno avuta con la fecondazione eterologa. Una sola l’ha portata in grembo ma entrambe l’hanno desiderata e tutte e due la stanno crescendo, educando e amando. Davanti alla legge sono genitrici ugualmente, avendo ottenuto l’adozione in casi speciali (quella per cui, tra le altre cose, un bimbo con un solo genitore può essere riconosciuto legalmente dal partner stabile di quel genitore) ma, poiché dallo scorso aprile il documento d’identità reca scritto “padre” e “madre” e non “genitore o chi ne fa le veci”, gli impiegati dell’anagrafe non sanno come registrarla. Impossibile inserire alla voce “padre” il nome di una donna, renderebbe quel documento un falso.

L’Istat nel 2011 stimava che in Italia ci fossero 529 coppie gay con figli, e i dati non possono che essere cresciuti, e sensibilmente, negli ultimi otto anni. Piaccia o meno questi bambini esistono, e lasciarli privi di carta d’identità fino ai 18 anni è stupido e ingiusto.

  1. Giudicare prima di conoscere

C’è un progetto di legge che vuole obbligare i figli di genitori separati a stare con entrambi, tempo diviso a metà col bilancino di precisione, e dà per scontato che se un figlio non vuole vedere un genitore (di solito il padre, anche se non sempre) è perché viene influenzato dall’altro. Omette di considerare che bambini e ragazzi hanno idee ed emozioni proprie, e se dicono di no possono avere le loro ragioni. Magari c’è qualcosa (o qualcuno) che li ha fatti stare male.

Il progetto di legge Pillon – ne abbiamo parlato in questo post – è osteggiato da tutti coloro che hanno a cuore la protezione dell’infanzia, meno male, ma è sostenuto da alcuni ambasciatori dei diritti degli adulti. Non ancora approvato, e speriamo mai, lo vedo agire in modo subdolo. Mettendo nero su bianco un tratto culturale molto italiano, la solita mitologia familiare, influenza già le decisioni di alcuni magistrati e, conseguentemente, i comportamenti di tante donne maltrattate dal partner che hanno sempre più paura di perdere i bambini con l’accusa di essere alienanti, e perciò rinunciano a denunciare e ad andarsene. Altre lo fanno, e si avvicinano all’udienza di separazione o divorzio con l’angoscia sapendo che potranno incontrare qualsiasi cosa, tutte le sfumature esistenti tra l’ascolto e il pregiudizio.

  1. Fare come se non fosse successo niente

Incontro casi di violenza gravissima nei quali gli operatori tentano, credo in buonafede, di rimediare, o di salvare il salvabile, senza rendersi conto che non tutto può essere recuperato e a volte è proprio meglio tagliare.

I casi più macroscopici li trovo nei procedimenti di tutela per i bambino orfani di madre dopo un femminicidio quando i familiari paterni, e a volte anche gli operatori, tentano di restaurare la figura paterna “che, in assenza della madre, è l’unico genitore presente”.

Ancora, ricordo l’esempio di una ragazzina abusata sessualmente per anni dal papà. Preadolescente, lei ne parla e il padre viene allontanato, processato, condannato. È anche reo confesso – protesta che è stata la figlia a sedurlo, quando aveva tra i 5 e gli 11 anni! – ma attenzione, la stupidità arriva adesso. In attesa dell’appello rimane libero e i servizi cosa fanno? Organizzano frequenti incontri tra la ragazzina e il padre – va bene, alla presenza di un educatore – in modo da preservare la figura paterna.

Certo non è facile avere a che fare con la violenza estrema, ma fare come se non fosse mai esistita non la cancella, anzi. La confusione, le contraddizioni, i danni che ne derivano si possono, forse, immaginare.

  1. Fermarsi alle etichette e ignorare i contenuti

Qui vado sul personale e mi tolgo un sassolino. Giusto un anno fa insieme a Gloria Soavi, psicoterapeuta e presidente Cismai, per la FrancoAngeli ho curato un progetto editoriale in due volumi intitolati “Proteggere i bambini dalla violenza assistita”, argomento su cui, nella saggistica in italiano, non c’è quasi nient’altro di pubblicato. Abbiamo scritto noi ed anche altri autori: magistrati, avvocati, assistenti sociali, psicologi, operatrici di centri antiviolenza o centri di ascolto per uomini maltrattanti…

Il fatto stupido è che già due Ordini regionali degli psicologi hanno rifiutato di presentare i volumi – e forse in altre regioni, se richiesto, farebbero uguale – non per mancanza di interesse verso il tema o scarsa qualità dei contenuti, che chissà se sono stati presi in esame, ma perché una delle due curatrici – io – è counsellor.

Ebbene sì lo confesso, ho studiato per tre anni ad un corso di counselling psicologico ad orientamento rogersiano, ho seguito il tirocinio e la psicoterapia. Sono anche sociologa e giudice onorario, sono queste le due competenze che maggiormente ho espresso nel libro, sebbene non possa escludere che la formazione tanto vituperata mi abbia – ad esempio – favorita nell’ascolto delle persone, anche in udienza. E però, fossi stata solo sociologa o giudice onorario il libro sarebbe stato preso in esame, anche con un avvocato o chiunque altro lo avrebbero fatto; il problema non è non-essere-psicologa ma, proprio, essere counsellor. Non importa se i libri possono o meno dare un contributo al lavoro degli psicologi, come non importa la validità dei capitoli che ho firmato (non parlo di counselling, e non lo esercito) o il fatto che, così facendo, anche l’altra curatrice – loro iscritta – viene penalizzata ingiustamente. Conta che io sono (anche) counsellor, e tanto basta.

L’Ordine degli Psicologi dell’Emilia Romagna ha escluso la presentazione dei nostri volumi e lo ha messo per iscritto; in un’altra regione si sono accorti del peccato originale dopo aver già organizzato l’incontro e, mortificati, mi hanno mandato a dire – non lo hanno scritto, e non mi hanno chiamata direttamente – se per favore potevo starmene a casa. Avessi già acquistato il biglietto del treno me lo avrebbero anche rimborsato volentieri, tutto purché non mi facessi vedere.

Di Elena Buccoliero

Faccio parte del Movimento Nonviolento dalla fine degli anni Novanta e collaboro con la rivista Azione nonviolenta. La mia formazione sta tra la sociologia e la psicologia. Mi occupo da molti anni di bullismo scolastico, di violenza intrafamiliare e più in generale di diritti e tutela dei minori. Su questi temi svolgo attività di formazione, ricerca, divulgazione. Passione e professione sono strettamente intrecciate nell'ascoltare e raccontare storie. Sui temi che frequento maggiormente preparo racconti, fumetti o video didattici per i ragazzi, laboratori narrativi e letture teatrali per gli adulti. Ho prestato servizio come giudice onorario presso il Tribunale per i Minorenni di Bologna dal 2008 al 2019 e come direttrice della Fondazione emiliano-romagnola per le vittime dei reati dal 2014 al 2021. Svolgo una borsa di ricerca presso l’Università di Ferrara sulla storia del Movimento Nonviolento e collaboro come docente a contratto con l’Università di Parma, sulla violenza di genere e sulla gestione nonviolenta dei conflitti.

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