Valentina Fortichiari sta curando l’edizione dei diari dello zio Cesare Zavattini. In un libriccino “Vocabolario della pace” raccoglie il carteggio con Aldo Capitini e Danilo Dolci. Sono poche lettere, intense e interessanti. Nell’introdurle mi cita, accanto a Pio Baldelli, come collaboratore eccellente di Aldo. Veramente troppo. Pio, giovanissimo, gli è accanto nel periodo clandestino della lotta antifascista e nella costruzione dei Centri di Orientamento Sociale nell’immediato dopoguerra. Io faccio cose molto modeste, negli anni Sessanta, in collaborazione soprattutto con Pietro Pinna, braccio destro, primo obiettore di coscienza, come scrive Valentina. L’attestato di stima e di amicizia, che ne ricavo, mi induce a raccontare come Zavattini mi riconosce collaboratore preziosissimo.
Ormai da tre anni lavoro in Provincia. Mi incaricano di organizzare una rassegna di corti in 8 e 16 millimetri. Nel ’66 è dedicata a Genti del Po. Mi pare fosse questo il titolo. Guido (Fink, che di cinema sa semplicemente tutto) ha una bellissima sceneggiatura, ispirata a “Hiroshima mon amour”. Titoli possibili: “Po amor mio”, “diomà Po”, o, semplicemente, “Po”. Quelli della mia generazione ricorderanno: Lui. – Tu n’as rien vu à Hiroshima. Rien. Elle. – J’ai tout vu. Tout. Elle. – Ainsi l’hôpital, je l’ai vu. J’en suis sûre. L’hôpital existe à Hiroshima. Comment aurais-je pu éviter de le voir ? Lui. – Tu n’as pas vu d’hôpital à Hiroshima. Tu n’as rien vu à Hiroshima. Elle. – Quatre fois au musée… Lui. – Quel musée à Hiroshima? Elle. – Quatre fois au musée à Hiroshima.
Per i più giovani un link.
Un uomo in canottiera, col cappello in testa, a letto, un bel letto con spalliera di ottone, come quello di mia nonna a Bondeno. Dice Ti t’an sa nient dal Po. Nient. Nuda, di spalle di fronte a lui, una donna recita come una litania, Il Po è lungo 652 chilometri, nasce sul Monviso, al Pian del Re, attraversa 13 province. Sfocia nell’Adriatico, lui la interrompe Ti t’an sa nient dal Po. Nient. 141 affluenti quelli di sinistra Ghiandone, Pellice, Chisola, Sangone, Dora Riparia, Ti t’an sa nient dal Po. Nient. Stura di Lanzo, Malone, Orco, Dora Baltea Ti t’an sa nient dal Po Nient. Sesia,.Agogna, Terdoppio, Ticino, Olona, Lambro, Adda, Oglio, Mincio Ti t’an sa nient dal Po. Nient. Di destra, partendo dalla foce, Panaro, Secchia, Crostolo, Enza, Parma Ti t’an sa nient dal Po. Nient…
Il cineamatore che lo realizzasse vincerebbe a mani basse, secondo Giorgio e me, che per la Provincia curiamo la rassegna. A Guido chiediamo invece una dotta introduzione sul fiume e sul Po in particolare nel cinema italiano. Il nostro assessore farà un figurone. Ci sono diverse opere segnalate. Assisto a tutte le visioni e premiazioni.
Mi pare abbia vinto una raccapricciante uccisione del nimêl, il maiale, in dialèt arzân, della bassa reggiana. Credo così lo chiamino a Luzzara, dove è nato Zavattini. Bastano 7 chilometri perché a Suzzara cambi nome gügiol. Noi, a Ferrara, lo chiamiamo busgàt. Gli entusiasti apologeti del Presidio del porco – non so che fine abbia fatto la benemerita iniziativa – non sapendo più cosa aggiungere per magnificarne i pregi li ricordo concludere: “Insomma, il maiale è uno di noi!”.
Nella nostra rassegna il presidente della giuria è Cesare Zavattini. Arriva al mattino, abbastanza presto in Castello. Giorgio e io lo riceviamo. Presentazioni. Giornata umida. Chiede qualcosa per contrastarne il fastidio. Un brandy. Beve, con un brivido. “Però” commenta.
Mi chiama Fogli anziché Lugli. Non lo correggo. Non gli dico: mi chiamo Lugli, sono nato a Suzzara, Susêra, da Luzzara, Lusêra separata solo dalla consonante iniziale e da 7 km. Mia mamma l’ha conosciuta molti anni fa in un ritorno al paese. Sono un Suo lettore. Vado quando posso al premio Suzzara, da Lei promosso, con l’inventore Dino Villani, pure di Suzzara. C’è pure il partigiano, tipografo, editore, Nardino Bottazzi, di Suzzara anche lui. Sfoglio il volume, oltre 430 pagine di grande formato, “SUZZARA la sua storia la sua gente”, da Bottazzi curato ed edito. C’è pure William Zanca, il fotografo del libro “Fiume Po”, con testo di Zavattini. Sta ad Arena Po, Rèina, lombardo sì, ma tutto un altro dialetto. Sono tutti a Ferrara con l’associazione “Amici del Po”, partecipe dell’iniziativa cineamatoriale. La dirige Cesare Parmiggiani, di Reggiolo, Rasöl, poco distante sia da Luzzara che da Suzzara. Quasi un triangolo. Con Parmiggiani faccio particolare amicizia.
Neppure dico a Zavattini “L’8 agosto 1963 Lei partiva per il viaggio sul Po, leggo su questo libro appena uscito. Io ero dal primo con l’amico, suo e mio, Capitini a Perugia! C’era pure Danilo Dolci”. Niente. Così mi firma il libro con dedica: a Fogli collaboratore preziosissimo Cesare Zavattini Ferrara. 10. 10. 66.
Ho letto poi “Viaggetto sul Po”, riassunto in un brevissimo testo che accompagna le foto di Zanca. Avrei potuto dirgli che conosco il suo Po. “Il Po da anni nel mio cuore cominciava mezzo chilometro prima di Luzzara e finiva mezzo chilometro dopo, al di qua e al di là c’era la Scizia e il gelo”. In quel Po lì lo zio Rubes, straordinario falegname, varava il batèl, costruito nell’inverno. “Lasciammo alle nostre spalle l’acqua che continuava la corsa verso il mare, e la nostra e si andava a cambiare in i (tal deg – te lo dico – in tal dig) appena due chilometri più avanti”. E, avremmo potuto aggiungere, nimêl si mutava in gügiol e infine in busgàt. “Intorno a mezzogiorno eravamo sul punto di Borgoforte e vi incontrammo il figlio di Battaglia che i tedeschi stavano fucilando, si salvò con una fuga improvvisa (essere lui quando rarefattisi gli spari degli inseguitori si trovò solo nella nostra campagna) e ora guidava la motocicletta con un’espressione normale”. Proprio di fronte a Borgoforte, dalla sponda di Motteggiana, mi rivedo, sempre con lo zio Rubes, a guardare come sta il Po. “Si pernottò a Ferrara, la bettolina aveva proseguito imperturbabile Venezia senza di noi. Al mattino prendemmo in affitto un’automobile che in poco più di un’ora ci avrebbe portato sul delta, e l’ansia rese insipidi i territori attraversati”. C’è poco sul ferrarese dunque. “Si fece colazione a Codigoro. Il gelato di crema era mediocre. I poeti camminano sull’acqua, mi ha detto la G., e io inciampo dappertutto come un pedante: scriverò al sindaco, dissi notando la mancanza di un cartello dove sarebbe stato necessario, ma quelli del luogo sanno che a destra si va a B. e non a C. con tale assolutezza da non confonderlo con la propria vita che non ha mai bisogno di frecce per manifestarsi”. Avrei potuto forse due anni dopo – ero assessore a Codigoro appunto – segnalargli una gelateria migliore e confessargli di non aver fatto nulla per migliorare la segnaletica. Qualche modifica c’era stata per mano ignota: Ponte Maodino abbreviato in Pone Mao. Infine l’arrivo al delta. “Arrivati in un villaggetto di pescatori, per tremila lire ci avrebbero portato al mare, che distava un paio di chilometri, con una barchetta. Nel folto del canneto non c’era un fremito, e a gettarci un sasso si sarebbe levato un nuvolone di uccelli”. Succederebbe ancora.